C’è chi al Festival di Cannes ci va per il cinema, chi per fare networking. Altri ci vanno per mettere i vestiti che nei giorni comuni non possono essere indossati. Infine, c’è chi vuole vivere la notte. Ma non tutte le serate sono uguali. Ammettiamolo: quelle serate organizzate da Campari, le feste negli hotel, gli afterparty dopo le proiezioni sono quasi impenetrabili. Per questo noi abbiamo deciso di fare il giro dei bar insieme ai comuni mortali (sì, oltre alle stelle a Cannes ci sono anche loro) per vedere come passano le notti se non si ha voglia (né tempo, né soldi, e neanche l’invito) per andare nelle feste glitterate dei giorni del Festival. Partiamo con il primo locale: il Barrel Pub. Francamente, niente di memorabile. Strapieno, fila infinita, drink dimenticabili (dieci euro per un cocktail, quindi anche accessibile) e persone lugubri che aspettano fuori dai bagni: un tizio ci fa il gesto del coltello alla gola appena usciti, da criminale in purezza (in realtà era innocuo). Sì, forse gli unici highlights sono dovuti alle conversazioni con la gente. Michel (così pare si chiamasse) attacca a parlare con uno di noi e, dopo averci chiesto il motivo della nostra presenza a Cannes, si lancia in un’apologia non richiesta di Marsiglia: “Parigi è finita, Marsiglia è il futuro. Lì gireranno i soldi, vedrete”. Insomma, Marsiglia come Milano, per dire. Ci fa vedere alcune foto sul suo telefono, dato che non ci vede convinti: “È bellissima, vero?”. Noi non abbiamo il coraggio di dirgli che quelle immagini sono fake. Lo ringraziamo, lo salutiamo e ce ne andiamo dal Barrel, anche perché guardandoci in torno l’età media è di poco sopra i diciott’anni. A pochi metri c’è il Marcel & Simone. I baristi sono due, per cui è lecito pensare che Marcel e Simone siano proprio loro. Proviamo a parlarci, ma sono di pessimo umore e soprattutto troppo impegnati a dare ordini a una povera ragazza, costretta a fare su e giù da uno scantinato con delle scale di legno ripidissime mentre tiene sulla spalla il cestello del ghiaccio: scende quando è vuoto, risale quando è pieno. Ogni tanto qualcuno dei clienti ha pietà di lei e prova a farla ridere con una battuta. Lei risponde appena e torna al lavoro. Anche qui, la musica non è delle migliori e decidiamo di andarcene. Poco prima, però, vediamo una donna che si tiene alle spalle degli amici. In due minuti arriva un’ambulanza e si ferma davanti a noi. I medici sono tranquilli: niente di grave, solo una grande botta (citazione di Franchino, in memoria sua). Il bar chiude poco dopo. Siamo in Rue Victor Cousin e si è fatta una certa. Dai locali escono gruppi di persone per fermarsi in strada, guardate dai poliziotti che pascolano le strade. Non è ancora tempo per loro di tornare a casa. E non lo è neanche per noi.
Finiamo al Dalì, dove abbiamo lasciato un pezzo di cuore. Prima di entrare ci sono quattro ragazzi italiani davanti a noi: vengono rimbalzati, senza motivo, senza spiegazioni. Provano a contrattare in inglese. Niente da fare: “Minchia fra, nemmeno qua siamo entrati”, dice uno di loro mentre si allontana. Noi, dopo un breve check degli zaini, passiamo. Andiamo diretti al bancone e testiamo la pazienza della barista. Siamo al festival del cinema, lecito chiedere un White Russian, come Il grande Lebowski. Non ha la panna, quindi nada. Alziamo il livello: un Singapore Sling, quello che Johnny Depp chiede in Paura e delirio a Las Vegas: ovviamente non ha gli ingredienti (gin, cherry, Cointreau e Dom Benedictine). Le diciamo che stiamo scherzando e ci fa un gin tonic. Il locale non è ancora pieno e ancora non è sommersa dai clienti, quindi la prende bene. Il Dalì si riempie verso le 2 e 30 di una fauna strana. Famiglie, ragazzi in tuxedo, alcuni in scarpe da ginnastica. Un gruppo di uomini vestiti di nero passano la ricarica del narghilè al dj. Non sembra esserci un filo conduttore tra tutte queste persone. Un misto che ci piace. Usciamo da lì un’ora dopo.
La strada ormai trabocca di gente. Qualcuno tenta di fare la fila in un barraccio dove chiunque si trova schiacciato con il viso al bancone. Non ne vale la pena, ormai è tardi. Qualche ragazza, stanca dei tacchi, cammina scalza sull’asfalto, fregandosene dei vetri, la birra e lo schifo accumulati nelle ultime ore. Nella strada verso casa qualche coppia elegante aspetta l’auto per le feste che stasera noi abbiamo deciso di rifiutare. Fuori dal Chrystie (un club che abbiamo evitato) ci sono ancora le ballerine in stile caffè newyorchese anni Venti: calze e piume bianche, corsetto e cuffia con gioielli. I ricchi continuano a vivere ancora per un po’. Noi per ora no. E il vestito buono deve restare qualche ora in più in valigia.