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Mancia obbligatoria nei ristoranti? Chef Guido Mori spara a zero su Pompili: “Soluzione imbecille a schiavitù e stipendi da fame”. E il critico Grignaffini teme la fuga dei clienti...

  • di Angela Russo Angela Russo

9 settembre 2025

Mancia obbligatoria nei ristoranti? Chef Guido Mori spara a zero su Pompili: “Soluzione imbecille a schiavitù e stipendi da fame”. E il critico Grignaffini teme la fuga dei clienti...
“Se non guadagni chiudi, non sei autorizzato a schiavizzare”. Guido Mori risponde all'idea di Pompili sull'obbligo di mancia: “Ha detto una stronzata talmente grossa che l’unico motivo per cui la può aver detta è per cercare di far parlare di sé”. Grignaffini: “Il rischio è che il cliente si trovi sempre più a disagio”

di Angela Russo Angela Russo

C’è chi la chiama proposta, chi la chiama provocazione, chi la liquida come una vaccata. La mancia obbligatoria nei ristoranti lanciata dal bolognese Piero Pompili (titolare del ristorante "Al Cambio" e autoproclamatosi "gastrofregno") ha fatto rumore, tanto rumore. L’idea è semplice quanto incendiaria: aggiungere tra il 5 e il 20% al conto, sempre e comunque, per far sì che camerieri e chef possano respirare con stipendi più dignitosi. Un sistema che all’estero funziona già, dice Pompili. In Italia, però, l’argomento è scivoloso. E perché non ascoltare l'opinione di uno chef e di un critico gastronomico? Abbiamo chiesto a Guido Mori e ad Andrea Grignaffini il loro punto di vista. Per Mori il punto è chiarissimo: il problema non è la mancia, il problema è che il lavoro nella ristorazione è diventato un girone dantesco. “Il problema della ristorazione è molto semplice: gli stipendi sono troppo bassi”. Poi raddoppia: “E vengono fatti degli orari da schiavi. Per cui chi va a lavorare nella ristorazione ci va per una semplice ragione: è disperato”. E quando si parla di professionalità pagate in noccioline, l’affondo è già lì: “E quindi non sei in grado di assumere i professionisti, se non li paghi una cifra decente”. Sulle cifre, Mori non gira intorno al tavolo: “Anche quando lui nomina stipendi da 1.800, sono lordi. Cioè sono stipendi in cui ti danno 1.150 netti. Quindi il primo problema è semplicemente questo”. E alza lo sguardo fuori confine: “Francia e Germania hanno costi di lavoro più alti rispetto all’Italia. Non è che l’Italia ha i costi di lavoro più alti d’Europa”. Ma il punto resta il conto: “Ha dei costi di lavoro alti, però quando fai un’attività ristorativa fai un calcolino: vedi quanto puoi guadagnare e quanto spendi. Se vai in positivo, apri l’attività. Se no, non la apri”. Il dito, comunque, torna sempre lì: “Il discorso che invece fanno i ristoratori è: pago pochissimo i dipendenti, una cifra veramente ridicola, li faccio lavorare come matti e praticamente loro fanno il guadagno sulla pelle dei lavoratori”. E sulla fotografia di sistema Mori non ha dubbi: “Questo è quanto succede adesso in Italia. Poi ci sono anche altre realtà dove vengono pagate cifre decenti e fanno orari decenti”. Ma quando arriva lo “spezzato” scatta il cartellino rosso: “Io, per esempio, lo spezzato iniziai a rifiutarmi di farlo. Non vengono fatte metà giornata, poi vado via due ore e poi ritorno a metà giornata. Che cazzo è? Girone infernale. Lo spezzato non esiste: può essere fatto soltanto in casi eccezionali, proprio dal punto di vista lavorativo"".

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Piero Pompili instagram Piero Pompili

Il colpo finale al turno diviso è un promemoria per gli imprenditori: “Se tu non ti puoi permettere due squadre, non farai pranzo e cena. Non è un problema del lavoratore questo. Io lavoro, ho un contratto da 40 ore: quando finiscono le ore della mia giornata, a me casca di mano la penna. Ed è sacrosanto questo. Perché nessuno ti deve far lavorare più di quello che è il contratto. E lo straordinario, nella parola stessa, include la straordinarietà del momento”. Poi si riapre il capitolo Pompili e qui l’ironia sale: “Questo fa un casino. Ha letto due volte Il Sole 24 Ore e pensa di essere diventato un super-lavorista”. E ci spiega: “Di solito nella ristorazione si applica il contratto del turismo, che implica dentro gli scaglioni di anzianità, implica salari aumentati per chi ha titoli di studio superiori, implica un primo, secondo, terzo, quarto, quinto livello, eccetera". E il mercato “alto” non è il Far West: “Cioè, se tu vai a lavorare al Four Seasons e fai l’IDCEF, rientri in un contratto nazionale dove prendi una cifra che è collegata al contratto”. Anche il motivo per cui non ti dicono subito “quanto prendi” ha una logica: “Il motivo per cui, quando vai a fare un lavoro, ti chiedono “che contratto c’è?”, “che contratto offre?”, e poi te lo calcolano in base alla tua anzianità e ai titoli di studio, ma non ti dicono subito quanto prendi, è perché devi fare questo calcolo”. Quindi basta favole: “Non diciamo puttanate: i contratti ci sono. Il salario minimo è uno strumento che serve per evitare che in alcune classi di lavoratori si vada sotto il minimo di povertà. È uno strumento applicato, mi sembra, in 120 paesi al mondo, su per giù”. E la stilettata geopolitica: “Praticamente c'è in tutta Europa, tranne che in Italia e probabilmente in Ungheria, perché con Orbán cosa cazzo puoi applicare di democratico?” E se parli di “qualità”, attento a non fare confusione: “Quindi, lui fa un casino, perché se tu parli di qualità, che cazzo c’entra il salario minimo? Il salario minimo lo prende chi sparecchia i comodini, chi fa il primo lavoro. Non è un cameriere di qualità”. E se vuoi pagare bene? “Se lui vuole pagare di più i suoi dipendenti, lo può fare”. Obiezione classica: “ma i ristoratori oggi non ce la fanno a pagare”. Replica secca: “Chiudano. A me dispiace, è capitato anche a me nella vita di chiudere delle attività”. È capitalismo, baby: “Ci sono attività che portano soldi e attività che non portano soldi. Se il tuo calcolo ti dice che non ti porta soldi, chiudi. Non è che sei autorizzato per questo a schiavizzare le altre persone”. E un promemoria operativo: “Guarda, c’è una sola persona che può fare più di 42 ore, il tetto massimo di qualsiasi lavoro dentro un’attività: ed è il proprietario”. La definizione di ciò che accade quando non si rispettano queste basi è senza zucchero: “La schiavitù, non potrei usare altri termini”.

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Guido Mori

E veniamo al cuore del cuore: “A un certo punto lui dice: allora come si risolve la cosa? Si fa pagare la mancia”.  Il ragionamento è binario: “Supponiamo due casi. Caso A: non guadagni abbastanza per pagare le persone una cifra onesta. Vuol dire che la tua attività economica è stata tarata male e sta andando male, quindi mi dispiace infinitamente ma devi chiudere. Perché le attività economiche funzionano solo se guadagni”. Poi il secondo ramo, decisamente più velenoso: “Caso B: sei un grandissimo figlio di troia che paga due lire i suoi dipendenti - e ti assicuro che nel 65% dei casi ricadiamo nel caso B - e ti compri con la società la decappottabile con cui vai a disoneste". La chiosa è un auspicio (poco fiducioso) e una sentenza: “Speriamo che lui sia nel caso A, cioè quello in cui ha tarato male le economie del suo posto. La soluzione “fai pagare ancora di più a chi ti viene” è una soluzione imbecille”. Perché? “Perché il problema della ristorazione è che è diventata troppo cara per i salari esistenti”. Concreto, da scontrino: “Cioè, non ti puoi più permettere di andare a mangiare una pizza fuori in due perché spendi 50 euro. E quei 50 euro molto spesso sono un ventiquattresimo del tuo stipendio. Quindi vai a mangiare la pizza ma non paghi la bolletta e l’acqua". E l’idea della mancia come “tampone” resta per lui inconsistente: “È un discorso completamente aleatorio. Pompili ha uno dei migliori ristoranti di Bologna ed è sicuramente, per alcuni piatti, uno dei migliori che ci siano. Però sono piatti costosi. Lui si mette in una fascia che a pranzo è classic fine dining. Una volta ci vai nella vita, è bellino, ok, fine”. E il pubblico storico? “Chi ci andava in quel locale? Ci andavano le persone denarose dell’industria bolognese a fare pranzo. E poi che è rimasto? Nessuno. Non ci sono quasi più perché l’industria si è deteriorata e negli anni questa frequentazione si è attenuata”. Niente giri di parole, la proposta non gli garba: “È fuori di testa perché tu il conto già lo stai pagando. Pensare di dover pagare il servizio in più perché tu, proprietario, non lo paghi è ridicolo”. Il giudizio sull’operazione comunicativa è tranchant: “Però è talmente ridicola questa cosa che a me sembra ovvio un punto: lui sta facendo hype”. E la cannonata finale: “Ha detto una stronzata talmente grossa, lo capisce veramente anche un cinghiale morto, che l’unico motivo per cui la può aver detta è per cercare di far parlare di sé. Secondo me lui questo ristorante lo vuole vendere e vuole passare ad amministrare una catena superiore. E quindi vuole crescere un po’ come figura. Ma è una stronzata così grande che chiaramente non meriterebbe nemmeno che uno gli rispondesse”. Però Mori una possibilità la lascia aperta, con cinismo: “Però, per esempio, a una grossa catena che fa ristoranti di qualche tipo potrebbe piacere un imprenditore così astuto da rigirare la frittata e rovesciare la problematica su chi già soffre”.  A chiudere, un aneddoto che fa da cornice perfetta: “Però guarda, io conoscevo un professore di chimica e fisica, un vecchio napoletano di quelli veramente intellettuali di altri tempi, che una volta uno gli fece una domanda e lui si girò con quest’aria serissima, con un accento bello marcato napoletano, e disse allo studente: hai detto una stupidaggine talmente grande che l’unica risposta sensata sarebbe farti un peto. Io credo che questo possa essere tranquillamente paragonabile".

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Andrea Grignaffini

A fare da contrappunto, senza sconti ma con un registro diverso, il pensiero di Andrea Grignaffini: “Ben vengano le proposte come quella di Piero Pompili che è un autentico maestro di sala uomo di idee e cultura. In questo caso penso però che un ulteriore frazionamento del conto diventi un problema, anche di trasparenza visto che aumentano le voci, e già c’è il pane, il coperto, a volte anche il servizio da pagare. Se a questo ci aggiungi anche la mancia si rischia che la proiezione iniziale del conto si ritrova totalmente diversa nel conto finale. In più c’è anche la problematica aggiuntiva che siccome la mancia sarebbe in percentuale, chi più spende più si trova il conto aumentato, chi invece se ne esce con un piatto e un’acqua minerale si trova anche una bassa incidenza nel conto". Insomma, anche Grignaffini è d'accordo: chi lavora deve essere pagato come merita, ma i clienti non possono arrivare a spendere cifre enormi: "In tutti modi bisogna lanciare qualche idea, perché la situazione è molto complicata. Io sulle mance sono ancora vecchio stile italiano, la consegno in contanti quando mi trovo di fronte a un servizio di valore attento, preciso e cordiale. Il rischio ora è che si impongono troppe cose in un mondo che già impone una marea di leggi e si rischia che il cliente si trovi sempre più a disagio ad andare a mangiare al ristorante. Io da critico sono molto possibilista ma il cliente normale che vuol passare una bella serata al ristorante si trova un aumento del numero di voci nel conto, orari da rispettare precisissimi, menù imposti, sabati e festivi chiusi e finali rapidi di serata per permettere (giustamente) al personale di andare a casa. Insomma, si rischia che la gente poi al ristorante non ci vada più…”. Fine del viaggio: qui non c’è una morale, c’è un ring sul quale la ristorazione italiana si sta giocando credibilità, sostenibilità e, soprattutto, persone. Mori ha messo sul tavolo tutto, frase per frase; Grignaffini ha messo i paletti di chi frequenta il terreno ogni giorno. Il conto, alla fine, tocca a tutti: ai clienti, ai camerieri, ai cuochi e ai titolari. Ma la mancia obbligatoria, per come la raccontano loro, non è la bacchetta magica: al massimo è un’altra riga in scontrino. E per molti, quella riga oggi pesa più dell’intero menù.

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