“Due Napoli, una capricciosa e quattro filetti di baccalà al tavolo quattro. E pure sei supplì per favore”. Nel baccano generale approda spiccio sul tavolo un piatto di ceramica bianca con due tovaglioli unti. Sopra ci sono quattro tranci di merluzzo dorati e qualche spicchio di limone. Tra loro occhieggiano i supplì bollenti, così familiari nella loro panatura arancione croccante. Le mani scattano protratte al centro per accaparrarsene uno, dividerlo a metà e compiacersi nel trovare il cuore di mozzarella filante. I romani trascorrono la loro vita mangiando supplì da quando emettono il primo vagito, giorno dopo giorno, connotando i momenti felici grazie a questo piccolo grande capolavoro. Il supplì accompagna le cene in pizzeria o gli spuntini al volo per strada, quando si accosta la macchina in doppia fila per scendere dal pizzettaro a taglio e prelevarne due nella bustina di carta trasparente d’olio, per ripartire sgommando. “Bono sto supplì, dammene nartro e allungame n’tovagliolo”.
Nessun romano si è mai chiesto da dove caspita salti fuori l'origine di questa palla di riso al pomodoro impanato e fritto e nemmeno perché si chiami supplì. Al romano je basta che sia proprio lui, compagno de vita di strada bono, che nutra e costi poco. Poi che il riso sia al ragù, più o meno scotto, freddo di bancone o bollente poco importa. L’amata polpetta un po’ lunga è sempre stata popolare, almeno fino a qualche anno fa, quando a Roma sono spuntati i primi chef a firmare i loro supplì, vantandosi delle personali versioni gourmet alla zucca, alla 'nduja, ajo e ojo, matriciani and so on. Se aumentano le faide per decretare chi frigga i supplì più buoni di Roma, declinati in tutte le varianti, diminuiscono a quanto pare le friggitorie semplici e buone di una volta, tanto che trovarne una che faccia i supplì tradizionali degni di lode non è facile. Noi ricordiamo certe sberle profumate di sugo piccantino che vendevano in alcune pizze a taglio nelle periferie di Roma che ancora il ricordo ci commuove, mentre ci scottavano tra le mani.
Ormai ogni giorno spunta un nuovo profeta che asserisce di esser stato insignito del titolo di king di qualche cavallo di battaglia romanesco e noi dietro, convinti quanto beoti, a stilare classifiche, a spellarci le mani in plausi e ad intasare le pagine culinarie di lodi al campione del giorno. I nomi più ricorrenti nel campo della rosticceria che spiccano sul podio sono Stefano Callegari, poliedrico inventore del trapizzino e dei suoi supplì chic. Gabriele Bonci il dio della pizza carica, dalla pollastra allo zibibbo, dal coniglio nero alla scarola. Jacopo Mercuro di 180 grammi a Tor de Schiavi, Luciano Monosilio The King of Carbonara a Campo de Fiori e Arcangelo Dandini, patron di Supplizio in via dei Banchi Vecchi, lì dove il Marchese del Grillo fece installare un pesante vespasiano davanti alla bottega del povero commerciante per dileggiarlo, mingendo sull’uscio del negozio.
Noi da Supplizio ci siamo stati dopo la lesson sul supplì perfetto impartito da Arcangelo, che oltre al ristorante in Prati, possiede la Mecca della friggitoria proprio dove non se poteva piscià in pace, in via dei Banchi Vecchi, per l’appunto. La piazzetta antistante è una delle più incantevoli di Roma, immune al degrado e profusa di afrore di bouganville strepitose e gelsomini in piena fioritura. I turisti conoscono la fama di Supplizio e divorano beati le pallette di riso al sugo fritte. Noi aggrediamo alla Bud Spencer due supplì al pomodoro e basilico e uno al ragù. “E la famosa crocchetta di patate affumicata?” Chiediamo. “Ci vuole troppo a prepararla”. Come al solito qualcosa manca, è finita, “non ce l'avemo, non lo famo, ce vole troppo”. I supplì ci vengono allungati su uno svilente piatto di carta e siamo ansiosi di fare il test ‘del filo’. Tutti sanno che il vero supplì deve avere un riso di buona qualità -di solito si sceglie il carnaroli- dal peso variabile dagli 80 grammi ai 110. Il sugo dev’essere arancione per la saporita necessaria untuosità, senza grumi di pomodoro e deve essere ‘al telefono’, in modo che dividendolo in due la mozzarella si sciolga filando.
Lo sapeva pure Barnaba, al quale il Molleggiato diede la faccia in una scena del film Innamorato pazzo, in cui giuravamo che filasse sul serio con la Muti. ll garçon ci chiarisce, non senza qualche esitazione, che il supplì ha da filà ma “va morsicato dalla capoccia” e mai dividendolo a metà perché “si fredda”. Così parlò Arcangelo. Peccato perché al taglio la mozzarella non si squaglia nemmeno e il riso - anatema! - si stacca dalla panatura. Il sapore? Per noi che siamo stati svezzati a supplì e rifiutiamo quelli dozzinali? È un grande boh, al quale diamo 3 per il gusto, 3 per la qualità, 5 per il prezzo – tre euro l’uno – 4 per la location, 3 per il servizio. Chissà com’erano i primi supplì proposti nel 1874 a Roma presso la Trattoria della Lepre al civico 9 in via Condotti, detti souplis de riso, che piacevano tanto a James Joyce, il poeta del cui retaggio scolastico ricordiamo il famoso Stream of Consciousness. Forse, appassionato com’era di queste deliziose pallette di riso, le avrà citate nei suoi flussi di coscienza.