Lo ripeteva Francesco De Gregori a quel ragazzo, Nino: non aver paura di tirare un calcio di rigore, ché non è da quello che si giudica un giocatore. A De Gregori dava implicitamente ragione Paolo Rossi, che adorava Evaristo Beccalossi. Tanto da metterlo al centro di uno dei suoi migliori sketch. Ma mica perché il Becca vinse una coppa o cose simili. No, per via di quei due rigori sbagliati, nel giro di otto minuti, contro lo Slovan Bratislava – sedicesimi di finale di Coppa delle Coppe, stagione 1982/83.
“Io, guerriero”, autobiografia di Francesco Acerbi uscita in libreria per Rizzoli, echeggia un mondo (duro ma sano) in cui essere calciatore, per quanto forte, non può essere tutto. Perché il calcio dà, togliendo parecchio, però, nel frattempo. E allora un calciatore, più o meno forte o vincente, certe cose se le deve conquistare anche altrove. O semplicemente deve trovarle dentro di sé, dentro la famiglia. “Io, guerriero” questa verità ce la ricorda, passo dopo passo, in modo semplice e lineare, forse fin troppo. Sembra il breviario ideale per una generazione svezzata a influencer e/o letture veloci. Tante considerazioni “assolute”, che un domani ben si presteranno a qualche post social in cui si insegna la vita. Qualche precetto, lungo la via. Lo legge un ragazzo che col pallone fa sul serio e magari ci riflette sopra. No, il calcio non è tutto ciò che sembra: non basta un buon procuratore per fare strada. Soprattutto, e questo lo racconta bene Acerbi, non serve un buon procuratore per salvarsi dall’alcol o da un tumore. Quasi duecento pagine che volano leggere, quellle di “Io, guerriero” (con prefazione di Ivan Zazzaroni). Nonostante si parli anche di dipendenze, di malattie. Rapporti famigliari decisivi, ma non sempre facili. Come quello col padre, figura silenziosa che però c’era sempre quando bisognava esserci. Acerbi, ripensando al rapporto con lui, si accorge di essersi lasciato alle spalle qualche “ti voglio bene” mancato, consapevole però che il padre, oggi, rivive in lui. A questo proposito, ardito, emerge un parallelismo con “Open” di Andre Agassi. Acerbi si rivede in quella storia di ossessione. Solo che a scrivere “Open”, accanto al tennista americano, c’era anche un certo J. R. Moehringer, giornalista di razza. Mentre nel caso di “Io, guerriero” sono solo le idee e le emozioni di Acerbi a occupare la pagina bianca. A volte vorresti che Francesco scavasse di più, che oltre a dirtele, le cose, te le facesse vedere.

Molto di ciò che si è in grado di “vedere”, in “Io, guerriero”, è frutto della buona memoria del singolo lettore e della penetrazione che certe immagini – moltiplicate e rilanciate da tutti i media possibili – possono avere dentro ognuno di noi. Pensate all’Acerbi a petto nudo, tatuato, che la sera dello scorso 6 maggio urla dopo il 4 a 3 decisivo segnato contro il Barcellona nella semifinale di Champions. Il nuovo Tardelli del 1982, in sostanza. Ebbene, a quel gol Acerbi dedica meno righe di quanto fosse lecito attendersi, perché sa che quella notte è già dentro la testa di chi legge. Preferisce recuperare frammenti di vita ormai inghiottiti dal tempo. Come quando agli inizi, a Brescia, incontrò Roberto Clerici, lo scopritore di Andrea Pirlo. Pavia, i campacci della Serie C, il calcio dei grandi (la Serie A), che però, quando finalmente arriva, non ti si rivela per come la sognavi quando guardavi il Milan in tv. In quest’ottica, il libro è schietto, non fa sconti. Acerbi lo ripete, in varie e cangianti forme: attrezzatevi, voi che volete fare carriera in A, perché quello è un mondo che, quando non servi più, ti butta via senza alcun ringraziamento. Se non sei uomo, ci resti sotto. E lui, uomo lo è diventato. Grazie alla malattia. E anche grazie a quella notte in cui tutto non finì come avrebbe potuto rischiare di finire. Solo, in auto, col motore acceso, su un cavalcavia. Non voleva vivere bevendo. Per fortuna tornò a casa, tornò a far parte a tempo pieno di quel circo di maschere (il grande calcio) in cui non solo è sopravvissuto, ma ha vissuto alla grande. A Sassuolo con Eusebio Di Francesco, poi il periodo “affamato” con la Lazio, i tatuaggi come cicatrici lasciate dalla vita che non si ferma mai. Quindi l’Inter, le mani alzate al cielo per ringraziare di esserci ancora, da protagonista. Il rapporto con Simone Inzaghi, che già aveva conosciuto e apprezzato a Roma, un mister capace di “leggere” i suoi giocatori. Infine la Nazionale. Nonostante tutto, le luci travolgono le ombre in “Io, guerriero”. Fede e riconoscenza senza dubbio eclissano rabbia e risentimento. Su un paio di episodi, però, Acerbi ci tiene a far chiarezza. Il primo (Inter-Napoli, marzo 2024) quando fu accusato di aver insultato Juan Jesus con frasi razziste. La giustizia lo assolse, ma quello che è rimasto sul groppo del difensore centrale è stata l’impossibilità di esprimersi. Da lui si pretendevano solo scuse, nessuna spiegazione. Secondo momento clou: la convocazione pre-Norvegia da parte di Luciano Spalletti. Proprio Spalletti, che solo qualche mese prima aveva ironizzato sull’età di Acerbi. Pretendeva rispetto, l’interista. Più chiarezza. Del tipo: ti vogliamo per un one-shot, non per il futuro. Non gradì, insomma, la vaghezza dell’allora CT della Nazionale. Che poi Acerbi, in “Io, guerriero”, ci dice di non gradire mai i giri di parole. Non poteva essere altrimenti. Il padre era di pochissime parole. La vita, poi, lo ha spesso travolto senza chiedere permesso. Da lì nasce l’inclinazione a combattere di Francesco Acerbi. Da lì nasce la tendenza a spiegarsi giusto il necessario. Forse anche meno di quanto serve, talvolta. Davvero la disfatta nella scorsa finale di Champions con il PSG può essere sintetizzata nel più classico dei modi? Ossia che loro, i francesi, quella sera sono stati più forti?
