Nel film The Apprentice, sull’ascesa di Donald Trump, Roy Cohn lascia tre principi al suo protetto, i cardini della sua visione del mondo: “Attacca, attacca, attacca”, “mai ammettere niente, nega ogni cosa”, e soprattutto: “Sempre dire che hai vinto, mai ammettere la sconfitta”. Ecco, la vita sui social e la politica sembrano aver imbracciato questa Weltanschauung, e nessuno è ormai più disposto a dire: “Ho sbagliato”. Così ovunque, nel dibattito pubblico e nello sport. Anche nel calcio. Si rischia troppo, ad ammettere di aver perso. Luciano Spalletti, nella conferenza in cui ha annunciato il suo addio alla Nazionale, ha detto che avrebbe continuato ad allenare gli Azzurri. Poi, però, esonero fu e lui ne prese atto. L’unico momento in cui l’ex ct, forse, ha pensato di ribattere e dire che i difetti di questa Italia non riguardano solo il suo lavoro. “Di chi è la responsabilità?”, si sono chiesti tutti dopo i risultati deludenti. Qualcuno ha parlato anche di “colpa”. Di questo “delitto sportivo” si è fatto carico in primis Spalletti. Anzi, a dire il vero è sembrato l’unico. A #Nonsolomercato su Rai Sport il mister è tornato sulla questione: “Quello che è accaduto con la Nazionale non mi passerà mai”. E sulle prospettive di Gennaro Gattuso e della squadra: “Si qualificherà”.

“Sono un uomo che fa le cose in base ai sentimenti, non in base agli interessi. Con la Nazionale ho provato la sensazione di essere in paradiso. Ce l’ho messa tutta. Non sono riuscito a dare niente. Sono dispiaciuto per aver deluso le aspettative. Mi prendo tutte le responsabilità”, ha detto sempre in trasmissione. Spalletti ha fatto un bel favore alla Figc e a tutto il movimento. Perché è evidente che quello che è accaduto non sia solo una sua responsabilità. “Avevo scelto io i calciatori, la Federazione mi ha sostenuto. Sono dispiaciuto per i tifosi. Non ho contribuito alla crescita della Nazionale. Nulla mi scivola addosso, tutto mi consuma”. È il calcio dei mal di pancia, di chi cerca “nuovi stimoli” (si veda Ademola Lookman), degli agenti che nonostante gli anni di contratto che legano i loro clienti ai club portano sul tavolo proposte di altre squadre. Meglio far girare l’economia, alzare i bilanci. È il calcio dell’Arabia e dei professionisti a cui non si può chiedere l’affetto incondizionato per una maglia. Meglio non ammettere i propri errori, quindi, per non abbassare il valore di mercato: colpa del mister, della società, dell’ambiente. Colpa degli altri, sempre. Luciano Spalletti ha ragionato con i sentimenti, contro il suo interesse. Così, siamo certi, ha fatto anche Gennaro Gattuso quando ha accettato l’incarico di ct. Il resto del mondo calcistico italiano, ma anche oltre, forse non può dire lo stesso.

