“È domenica mattina, si è svegliato già il mercato/ In licenza son tornato e sono qua/ per comprarmi dei blue jeans al posto di questa divisa/ e stasera poi le faccio una sorpresa”, cantava Claudio Baglioni nel 1972. Il mercato era quello di Porta Portese, vitale espressione popolare dal secondo dopoguerra ad oggi. Chi non ha mai transitato a passo d'uomo per Trastevere sotto un sole allo zenit in cerca di carabattole non può capire l’eccitazione che anima i romani di una certa generazione. Qualcuno figlio degli anni Settanta ci ha pure venduto il vecchio servizio di posate trovato in cantina appartenuto a chi sa chi, “cinquemila lire, sono 49 pezzi, c'è pure il mestolo” si invogliava l'amatore, il passante, il rigattiere e il poveraccio, che raccattava la merce da uno straccio per terra, allungava gli spiccioli e continuava la ricerca. C'erano in vendita anche cuccioli di cane, canarini, tartarughe, porcellini d’india in gabbia, pesci rossi. Allora il pedigree non contava, come anche l’attenzione al benessere degli animali. Nessuno ormai torna più a casa con il cagnolino di dubbia razza e il barbone, il maltese e il lagotto sono i cani giusti da possedere, quando non si adottano al canile. L'acme del comfort era il “bibbitaro” scamiciato dal petto villoso color del cuoio rigato di sudore, che si incollava la tinozza con le lattine ammollo nelle lastre di ghiaccio e nell’afa, tra la folla, strillava acqua, coca, birra, aranciata. Qualcuno abbrustoliva pannocchie. Chissà perché in trent’anni che ci trasciniamo per Porta Portese crepiamo costantemente di caldo.

Agosto è il mese in cui la gente lascia l'Urbe per andare ad Alba Adriatica, Rimini, Riccione. I calabresi “scendono”, i pugliesi tornano nel bel Salento, qualche intellettuale che ha trovato lavoro nella Capitale stringendo mani torna in Basilicata. In città restano i rumeni, i bangladini, i turisti che girano spaesati e i poveracci, come noi, che come ogni domenica di agosto chissà perché, come attirati da un atavico richiamo di infanzia, ci troviamo a camminare tra i banchi sotto alla canicola, a guardare le facce di chi incrocia il nostro passo, tra gli ombrelloni disordinati. Il mercato di Porta Portese è figlio di Roma che affrontava il dopoguerra, la povertà e la fame con spontanea creatività tipica del suo popolo. Merce rubata, biciclette, reliquie di umide cantine, poveri stracci, aste di occhiali, vecchi orologi, madonne, cristi in croce. Non era tempo di bric à brac e vintage, ancora, e negli anni l’energia vitale spontanea di Porta Portese ha costituito l’ossatura della romanità fondendosi in una eterna appartenenza. Un biondo a torso nudo rimesta con autorevolezza in un mucchio di giacche di tight su un tavolaccio coperto, “parla col boss”, ci dice sospettoso, “io sto qua da 35 anni, tra un po’ me ne vado. Questa cosa di regolamentare il mercato fa schifo, ci dovete fa un libro su ‘sta storia”. “Vogliono cacciare gli abusivi”, gli diciamo, si tranquillizza quando capisce che siamo amici. L’aria è quella amara di chi si aspetta che gli vengano a portar via qualcosa, che gli si espropri il diritto a campare, senza liceità se non quella della prepotenza di chi comanda.

Nella caducità dell'esistenza Porta Portese resiste mentre tutto attorno perde di autenticità, l’anima di Roma scimmiotta se stessa in una sinistra cancellazione dei suoi respiri più veri, sostituiti da ammodernamenti vuoti e tarocchi. Per dirla con Nicola Vicidomini “a Roma non si restaura, si ristruttura come i bar, al contrario della Francia ove si conosce e si rispetta il valore storico di un luogo”. Tutto però ha fine. A ottobre questa bolgia che stringe romani, pellegrini accattoni, curiosi e disperati in un abbraccio silenzioso che sa di ciò che è sempre stato, che i nostri genitori conoscevano per tramandarcelo in un inevitabile anelito di legame e militanza, sarà ordinata da un regolamento autoritario quanto spersonalizzante, che cancella memoria e sentimento a colpi di ottusi pretesti di pulizia e ripristino della “legalità”. La longa mano della giunta del Sindaco Gualtieri mira allo snaturamento di Porta Portese tramite una lotta dura all’abusivismo, che fu movente e stimolo del suo venire alla luce, costituendone la struttura verace fatta di postazioni selvatiche, oggetti con un passato, personaggi dallo spirito esclusivo, omologandolo alle altre tristi sfilate di pallidi artefatti gazebo già presenti in altre zone di Roma, esponenti paccottiglia moderna.

La genuinità dell’anarchico caravanserraglio già aveva cominciato a subire un duro colpo qualche decennio fa per l’invasione di mutandari tarocchi che affollano la via di ciabatte e pigiami, noi ancora spigolando tra montarozzi di giacche militari, anfibi, anticaglie tarlate, stracci, vetusti grammofoni, bambole senza testa, libri, dischi e orologi vecchi in cerca di esotiche primizie con una storia da far rivivere. Ma con la riqualificazione prevista ci saranno “aree di ristoro con tavoli e piazzole di sosta, adozione del ‘banco tipo’ omologato per tutti i venditori e relative numerazioni e concessioni in vista, con logo del mercato accanto a quello del Comune di Roma”. Oggi la controffensiva a questo scellerato progetto di restyling si fa più massiccia grazie al movimento che ha preso il via da un articolo di Nicola Vicidomini per MOW, il quale rivolse una lettera aperta al Sindaco Gualtieri appellandosi alla salvaguardia di quell’altrove che tutto contiene, con i suoi fumi di vita che rischiano di scomparire per sempre risucchiati da una esecrabile urgenza di “ammodernare un sentimento” che è parte del tessuto di Roma. Antonio Rezza, Ernesto Bassignano, Cochi Ponzoni, Bruno Colella, Salvatore Sansone, Francesco Scimemi, Giulio Cavalli, Deborah Farina, Fulvio Abbate, Enrico Capuano, Salvatore Marino, Nino Frassica, Tony Esposito, Stefano Sarcinelli, Stefano Disegni si sono uniti al manifesto di Vicidomini raccogliendo l’appello a favore del “giù le mani da Porta Portese” sotto l’egida del comun denominatore social “Difendere Porta Portese”. La speranza è che vengano ascoltate le ragioni culturali, esistenziali ed umane per le quali è necessario che il mercato che più si identifica con la romanità venga lasciato al di fuori di squallide logiche di regolamenti, perché il rischio è che si perda ciò che resta dell’anima più pura della Città. Scongiurando al contempo che non ci siano intenti di favorire le postazioni ai soliti raccomandati…
