Nel cuore dell’Europa un tempo sognavamo. Sognavamo un continente di pace, di cultura, di libertà. Sognavamo che l’orrore del Novecento fosse stato abbastanza per fondare una civiltà nuova, dove il diritto fosse più forte della forza, dove le nazioni si unissero non per interessi, ma per visione. Ma oggi ci svegliamo in un’Unione Europea che finanzia una guerra che non può vincere, mentre chiude gli occhi di fronte ai corpi che cadono, alle strade vuote, ai cuori spezzati. E non da ieri. Da anni. L’Unione Europea, con la sua burocrazia asettica e i suoi comunicati intrisi di retorica, sta versando miliardi in un conflitto che sta sfiancando non solo l’Ucraina, ma anche la sua stessa legittimità morale. Oltre 59 miliardi di euro in aiuti militari. Oltre 6 miliardi solo in armamenti. Altri milioni per addestrare giovani a combattere una guerra sempre più disperata. Ma nessuno – nei palazzi ovattati di Bruxelles – sembra porsi la domanda più semplice: dove stanno andando a finire queste vite? Le cronache parlano chiaro. L’Ucraina è a corto di uomini. Non di soldati, di uomini. Lavoratori, padri, studenti. Trascinati con la forza, rapiti letteralmente per strada, caricati su furgoni da reclutatori sempre più simili a miliziani che a funzionari. Le telecamere amatoriali riprendono la scena: un uomo lavora, un altro cammina, un terzo chiacchiera con un amico. Poi arrivano in due, lo immobilizzano, lo gettano nel furgone. Sparito. Nessun mandato, nessun processo, nessuna dignità. Ma l’Ue tace. Forse perché paga, e chi paga non deve domandare. È questa l’Europa dei diritti? È questo il modello che vogliamo estendere? È questa l’umanità che pretendiamo di esportare, mentre lasciamo che si rapiscano persone per riempire trincee? Forse sì. Perché questa Europa – quella reale, non quella dei sogni fondativi – non è più il faro di civiltà che pretende di essere. È una macchina cieca, ideologica, inchiodata a un’idea di potere che ha perso ogni contatto con la realtà. E l’Ucraina, oggi, ne è la cartina tornasole.

Lo era già prima della guerra. Quando Bruxelles parlava con voce melliflua di “avvicinamento” all’Ue, l’Ucraina era ben lontana dai criteri minimi richiesti per l’adesione. Corruzione dilagante, rispetto ambiguo dei diritti delle minoranze, instabilità istituzionale cronica. Ma ora, con il Paese ridotto a uno scheletro sociale ed economico, il discorso continua. Nonostante tutto, l’Ue promette l’adesione. Come se la guerra, invece di allontanare, potesse magicamente accelerare l’ingresso. Come se fosse la distruzione – non la riforma – a rendere un Paese europeo. La verità è che l’Ucraina viene usata. Come frontiera armata dell’Occidente. Come muro di carne contro la Russia. Come campo di battaglia geopolitico dove l’UE può fingersi protagonista, mentre in realtà è solo gregario delle scelte americane. I Paesi membri comprano armi dagli Stati Uniti e le inviano a Kiev. Un tempo si chiamava colonialismo. Oggi si chiama solidarietà. Cambiano le parole, ma non le logiche. Intanto, la popolazione crolla. L’economia è in ginocchio. L’inflazione corre oltre l’11%, le tasse aumentano, i servizi collassano. La classe media è fuggita o è al fronte. Le infrastrutture energetiche sono in pezzi. Le donne protestano contro i reclutatori che hanno già portato via mariti, figli, fratelli. Gli uomini si nascondono, si procurano certificati medici falsi, cercano ogni via per evitare di essere sacrificati in un conflitto che sembra non avere più strategia, né scopo. La guerra si è trasformata in un meccanismo che si alimenta da sé. E l’Europa lo alimenta. E poi ci sono i numeri. Numeri che nessuno vuole guardare. Dei 35 criteri negoziali richiesti per l’ingresso nell’Unione, l’Ucraina ne ha rispettati forse 3 o 4.

E non si tratta di sfumature tecniche: si tratta di riforme profonde, culturali, istituzionali. Ci è voluto un decennio di pace e riforme per far entrare la Croazia, che non era in guerra. Ma per Kiev, con le città in rovina e i tribunali in tilt, tutto andrebbe bene. Tutto si può sorvolare, tutto si può rinviare. Basta che la narrativa resti intatta. Ma a quale prezzo? Quanti altri uomini dovranno essere spinti con la forza verso il fronte prima che qualcuno abbia il coraggio di dire basta? Quanti altri miliardi dovranno essere spesi – non per ricostruire, ma per distruggere – prima che l’Europa si chieda che cosa davvero sta costruendo? L’Ucraina non è il nemico. Il popolo ucraino è vittima. Ma la prima colpa non è solo della Russia. È anche – e soprattutto – di un’Unione Europea che si è lasciata trascinare in un conflitto che non controlla, con obiettivi che non conosce, e con un’etica che ha dimenticato. Chi davvero vuole bene agli ucraini non li manda a morire in massa per poi regalare illusioni europeiste senza fondamento. Chi davvero vuole bene all’Europa non la svende in cambio di una medaglietta geopolitica. Forse è ora di risvegliarsi da questa trance bellica. Di riprendere in mano il concetto di civiltà. Di avere il coraggio di dire che l’Europa non può essere se rinnega se stessa. E che un continente che paga le armi e chiude gli occhi sui diritti non è un faro di pace, ma un complice del caos. L’Ucraina, oggi, ci mostra ciò che siamo diventati. E ciò che rischiamo di perdere. Forse è ancora possibile invertire la rotta. Ma solo se si ha il coraggio di rompere il silenzio. E dire ciò che tutti pensano, ma pochi osano articolare: questa non è una guerra per l’Europa. È una guerra che sta uccidendo l’Europa.
