Da oltre dieci anni racconta la cronaca nera italiana in televisione, entrando nei casi più intricati e divisivi con rigore e spirito critico. Carmelo Abbate, giornalista, saggista e nota penna del settimanale Panorama (fino al 2019), è anche un volto familiare per il pubblico di Quarto Grado, dove ogni settimana offre analisi puntuali e punti di vista mai scontati. Un contesto, racconta Abbate, dove ha la fortuna di poter dire sempre ciò che pensa, anche quando le opinioni sono discordanti. Dove si cerca di restare fedeli ai fatti e di dare spazio a tutte le voci: quelle dell’accusa, ma anche quelle della difesa. In questa intervista ripercorriamo insieme a lui alcuni dei casi di cronaca più dibattuti: si parte da Garlasco e dall’omicidio di Chiara Poggi, con una riflessione lucida sull'intera indagine e sul processo che ha portato alla condanna di Alberto Stasi dopo due assoluzioni. Un caso che per il giornalista rappresenta uno dei più grandi disastri investigativi italiani, in cui si è arrivati a una sentenza definitiva senza una prova regina. Si passa poi al femminicidio di Giulia Cecchettin, una delle vicende più recenti e dolorose, che ha scosso l’opinione pubblica e riportato con forza al centro del dibattito la violenza contro le donne. Abbate riflette anche su quanto ancora ci sia da fare, non solo sul piano legislativo, ma soprattutto culturale e sociale, per contrastare questa piaga. Si prosegue con il caso di Liliana Resinovich, la donna scomparsa a Trieste e ritrovata morta dopo settimane. Un’indagine ancora piena di punti interrogativi, dove sottolinea come il marito sia stato bersaglio di un “processo mediatico” ingiusto, a fronte di una totale mancanza di elementi concreti che lo colleghino ai fatti. Poi si arriva alla storia che forse più di tutte lo ha segnato sul piano umano: quella di Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa nel 2010 e ritrovata tre mesi dopo in un campo a Chignolo d’Isola. Abbate racconta il coinvolgimento personale durante i giorni delle ricerche, la promessa fatta idealmente a Yara, e la convinzione maturata nel seguire passo dopo passo il processo a Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo in tutti i gradi di giudizio. Da lì passa poi al caso di Emanuela Orlandi, il mistero che coinvolge il Vaticano che dura da più di quarant’anni. Una vicenda che continua ad affascinare e a indignare, su cui mantiene un realismo disincantato: troppi silenzi, troppe verità mai dette, e sempre meno possibilità, con il tempo, di arrivare a una risposta definitiva.

Sono più di dieci anni che segui la cronaca a Quarto Grado. Come ti trovi nell'affrontare temi così delicati e complessi in uno dei programmi più seguiti d'Italia?
Posso dire di avere la fortuna, a Quarto Grado, di poter esprimere la mia opinione con totale libertà. Libertà unita all’onestà intellettuale che cerco sempre di metterci. In questi 10, anzi ormai 11 anni che faccio Quarto Grado, non c’è mai stata una sola volta – dicasi una volta – in cui qualcuno abbia provato, non dico a impormi, ma nemmeno a condizionare il mio libero convincimento, o la possibilità di dire come la penso. Gianluigi Nuzzi, con cui capita anche di non essere d’accordo – e guai se non fosse così – anche quando la vede in modo completamente opposto al mio, mi ha sempre dato la possibilità di esprimere il mio punto di vista, anche quando discordante dal suo. E ho la grande fortuna di lavorare con Siria Magri, che è la responsabile e curatrice del programma, e che mi ha sempre garantito piena libertà. Io ho sempre cercato di ricambiare questa fiducia cercando di farne un buon uso. Penso che Quarto Grado oggi sia una trasmissione di informazione seria, autorevole, che verifica, racconta e spiega le notizie, soprattutto attraverso i servizi – che secondo me sono dei piccoli capolavori di narrazione. Mi fa anche molto piacere far parte di una trasmissione che, nel suo Dna, ha proprio quello di non sposare mai una linea unica, ma di dare sempre voce a tutte le posizioni. Si raccontano le ragioni di chi accusa, ma si dà spazio e dignità anche a chi si difende. E questo, oggi, non è scontato – anzi. Ci sono tanti contenitori che, per un calcolo cinico, scelgono una sola direzione e ci vanno avanti a testa bassa. Quarto Grado, invece, è un contesto straordinario, dove ho la possibilità, e ripeto, non è cosa da poco, di dire la mia in totale libertà.
In questo periodo stiamo assistendo a un interesse sempre maggiore verso la cronaca nera, mentre fino a qualche anno fa sembrava un tema un po’ relegato in secondo piano. Come mai?
Io penso che la cronaca sia uno straordinario strumento, forse il più efficace in assoluto, per comprendere davvero la realtà in cui viviamo. Ti permette di entrare nel cuore delle dinamiche sociali e dell’animo umano: nelle azioni degli individui, nelle motivazioni profonde che li muovono. Attraverso la cronaca, ciascuno di noi ha la possibilità di conoscere meglio il contesto in cui vive e le persone che lo circondano. L’interesse per la cronaca è, secondo me, solo in apparenza legato al momento: quando ci sono casi mediaticamente forti, sembra che ci sia un’attenzione maggiore, ma in realtà non si spegne mai davvero. Ecco, credo che sia questa la ragione.
C’è un po’ di morbosità da parte dei media nel trattare certi argomenti, secondo te?
Io credo che questa polemica venga spesso usata in modo strumentale, soprattutto all’interno del mondo giornalistico. Secondo me, la differenza vera sta tra chi fa il giornalista con serietà e chi no. C’è professionalità o mancanza di professionalità, non una via di mezzo. C’è chi fa il proprio lavoro con rigore e chi invece si piega alla logica dei social, dove "uno vale uno", e chiunque può sparare presunte notizie senza alcun riguardo per l’attendibilità, la verifica o le conseguenze su chi è coinvolto. Quella, per me, è la vera linea di demarcazione.
La giustizia viene influenzata dai casi più mediatici?
Penso assolutamente sostenere di sì, e negli anni, a mio avviso, si sono consumate delle grandissime ingiustizie ai danni di povere persone sull'onda mediatica. Parlo, per esempio, di un caso attuale più che mai: Garlasco. Alberto Stasi è in carcere perché, in qualche modo, è stato dipinto come il bocconiano dagli occhi di ghiaccio, l'antipatico, il freddo, ma Alberto Stasi non aveva assolutamente prove a suo carico per poter essere condannato e, infatti, nei due gradi di giustizia era stato assolto. Secondo me, il clima mediatico che si è creato attorno alla figura di Alberto Stasi ha determinato, in qualche modo, la sua condanna. Parlo anche di Antonio Loggi, il marito di Roberta Ragusa, che attualmente si trova in carcere. Conosco benissimo il caso, conosco le carte, le ho studiate e trovo incredibile che si sia arrivati a una sentenza di condanna, non perché ci sia o non ci sia il corpo, perché si può condannare anche in assenza di un corpo. Ogni tanto vorrei un collegio di giuristi indipendenti che, leggendo quelle carte, mi dicano che veramente ci sono le prove per condannare quell'uomo, che intanto sta in carcere. Parlo poi di Salvatore Parolisi, un caso risolto a furor di popolo, accusato dell'omicidio della moglie Melania Rea. Salvatore è stato costruito nella sua immagine pubblica come il fedifrago, quello che aveva relazioni con la soldatessa e poi con altre eventuali, e viene condannato quando non ci sono evidenze che qualcuno quel giorno si aggirasse attorno a Melania Rea, e sicuramente non poteva essere lui. Alla fine, penso che, in qualche modo, sull'onda di un grande coinvolgimento mediatico, negli anni, a mio avviso, naturalmente, è un parere mio personale, si siano consumate, ai danni soprattutto di persone che non sanno difendersi, delle grandi ingiustizie.

Tornando ad Alberto Stasi: ha richiesto la semilibertà, che però per ora non gli è stata concessa dalla Procura Generale, che gli contesta un’intervista rilasciata alle Iene senza autorizzazione. Secondo te è una decisione corretta?
Su questo io non ho elementi per entrare nel merito o meno, perché poi attiene alle misure disposte dal Tribunale della libertà, che nessuno conosce. Poi tutti si pronunciano sulla base del “sono con Alberto Stasi” o “sono contro Alberto Stasi”. Io trovo che Alberto Stasi, a prescindere dal merito delle misure, abbia fatto e stia facendo un percorso, a mio avviso, encomiabile, perché è stato sbattuto in carcere subito all'inizio dopo l'omicidio di Chiara nel 2007, fu scarcerato, poi, con una sentenza definitiva, si è consegnato ed è andato in carcere. Ha risarcito e continua a risarcire, così come disposta dalla sentenza, la famiglia di Chiara Poggi. Sta facendo il suo percorso all'interno del carcere, è un detenuto modello, sta assolvendo ai suoi obblighi e si è inserito in un percorso di graduale reinserimento, come prevedono le nostre norme. Lasciamolo anche un po’ in pace. Alberto Stasi ripete oggi quello che ha sempre detto, cioè che lui è innocente, lo ha sempre detto e lo continua a ribadire. Io mi chiedo perché tutto questo, in qualche modo, oggi sembra quasi mettere paura a tanti. Alberto Stasi dice "sono innocente", che è quello che diceva 18 anni fa. La parola di Alberto Stasi ci fa paura, suona quasi come una minaccia, cioè non deve parlare, non bisogna dargli parola. Per me no, assolutamente no. Se la sua parola "sono innocente" suona quasi come minacciosa, vuol dire che tutto quello che ha portato a questo, probabilmente, non è così granitico come pensiamo. Forse questo è il vero problema.
Ci sarà una svolta con l'ultima riapertura delle indagini?
Secondo me sì, io francamente me lo auguro. Nel 2014, quando venne condannato, a Quarto Grado, in collegamento con la mamma di Chiara Poggi, una persona assolutamente rispettosa anche delle opinioni di tutti, esternai direttamente la mia opinione, che era che si stava scrivendo una pagina non dignitosa, a mio avviso, di giustizia. Alberto Stasi veniva condannato veramente in un contesto in cui non c'erano prove, a mio avviso, sulla sua colpevolezza. Questo non lo dico oggi, lo dissi al tempo. C'erano tante potenziali prove che avrebbero potuto portare in una direzione opposta. Invece si fece allora quello che è l'errore che si fa in tanti casi giudiziari, e che vedo spesso: quello di partire da un pregiudizio investigativo, di costruire una teoria a monte e poi di andare in qualche modo a incastonare i fatti adattandoli alla teoria. Cioè, ho deciso che è lui, quindi tutto quello che va nella sua direzione va bene e lo incastono, mentre tutto quello che va in una direzione opposta quasi lo ignoro. Dissi al tempo che non c'erano le prove, l'ho continuato a ribadire in tutti questi anni a Quarto Grado, dove, grazie a Dio, mi danno la possibilità di dire con grande libertà quello che penso. Poi è il mio pensiero e cerco anche con serietà e con rispetto sempre di argomentarlo, quindi non con slogan lasciati così a loro stessi. E continuo a ritenere oggi che c'è un innocente in carcere e quindi mi auguro che questa indagine porti a qualcosa, ma sono anche certo che porterà a qualcosa. Mi auguro e spero e sono certo che verrà fuori la verità su quello che successe quel giorno a Garlasco e sarà una verità brutta per tutti e per tanti.
Andrea Sempio, che ora è indagato per l'omicidio, ti sembra sincero quando ricostruisce la sua frequentazione con Chiara Poggi e spiega come mai il suo Dna è nella casa della vittima?
Io più che per impressione, vado per fatti o per dati oggettivi. Non voleva nemmeno dare il suo Dna, poi l'ha dato perché costretto e ha detto "quel Dna non è mio". Poi ha fatto un ulteriore passo e mi pare che abbia detto "se è mio è da contatto", poi ulteriormente ha detto "ci saranno altre tracce perché io frequentavo quella casa". Allora, io penso che tutto questo in qualche modo ci deve far riflettere. Sembra quasi che stia in qualche modo mettendo le mani avanti. Poi, come è stato per Alberto, ha diritto che le indagini vengano fatte nella più totale garanzia per lui, però è giusto che ci siano delle indagini ed è giusto che lui dia delle risposte. Se nel 2017, quando venne chiesto il Dna di Alberto Stasi per confrontarlo con quello trovato sulle unghie, si poteva confrontare con quello di Alberto Stasi, non capisco perché non si possa confrontare oggi con quello di un'altra persona. Oppure torniamo all'idea: o è stato Alberto Stasi, o non è stato nessuno. Quindi, se per caso questo Dna, in incidente probatorio, vedremo cosa emergerà, fosse attribuito ad Andrea Sempio, Andrea Sempio a quel punto dovrà dare delle risposte, cioè dovrà dire cosa ci fa il suo Dna in quella casa. Non penso che si possa uscire da questa storia con l'ipotesi della contaminazione, cioè ho toccato la tastiera del computer, poi l'ha toccata Chiara, da lì è arrivato sulle mani di Chiara. Penso che questa sia assolutamente improponibile come teoria e qualcuno dovrà dare delle spiegazioni.

Ci sono casi in cui i parenti delle vittime non sembrano accettare le logiche stabilite dal diritto, dai genitori di Chiara Poggi che accettano solo Stasi come colpevole, alla sorella di Giulia Cecchettin che non accetta che sia decaduta l'aggravante della crudeltà per Filippo Turetta. Come si spiegano queste reazioni?
Penso che le reazioni dei familiari siano tali e vanno rispettate, cioè è giusto che la famiglia di Chiara Poggi dica quello che pensa. Si può condividere o meno, però è giusto che dica quello che pensa su Alberto Stasi, sulle sentenze, come è giustissimo che la sorella di Giulia Cecchettino critichi la sentenza laddove, per esempio, non viene riconosciuta la crudeltà e lo stalking. Va assolutamente rispettata. Detto questo, una volta rispettata, io personalmente sostenevo durante il processo che non c'è assolutamente l'aggravante della crudeltà, perché poi nelle aule dei tribunali non bisogna portare le emozioni della piazza, non bisogna portare il dolore dei familiari delle vittime. Nelle aule dei tribunali si chiudono le porte e si applica la legge e il diritto.
Potremmo dire che hanno ragione a livello umano, ma hanno torto a livello legale?
Secondo me, il livello umano non ha ragione o torto, è genuino ed è puro. Poi però, in un'aula di tribunale, non bisogna fare entrare le emozioni, ma si applica in modo asettico, crudele se vogliamo, il diritto, perché altrimenti usciamo nella giungla, la folla è inferocita e torniamo a tempi non dignitosi. Quindi, in questo caso, nell'aula di tribunale, giustamente i giudici non hanno ritenuto di applicare l'aggravante della crudeltà e giustamente hanno ritenuto di non applicare l'aggravante dello stalking. A mio avviso, non c'è neanche la premeditazione e quindi non mi stupirei se nel secondo grado cadesse anche l'aggravante della premeditazione. Con questo verrebbe in qualche modo tradita la motivazione della famiglia Cecchettini? Assolutamente no, perché poi penso che non debba essere questa la battaglia. La battaglia va fatta a livello culturale, ma le battaglie culturali non devono entrare nell'aula di tribunale, a mio avviso.

Un caso che era partito sotto traccia, ma poi nel tempo è diventato quasi una fiction, è quello dell'omicidio di Pierina Paganelli. Tu che idea ti sei fatto, in particolare dopo le dichiarazioni di Valeria Bartolucci a Le Iene?
A Quarto Grado, in tempi non sospetti, ho detto, anche se magari verrò smentito nei prossimi giorni, lo vedremo, che Louis Dassilva, a mio avviso, non verrà assolutamente scarcerato e che verrà rinviato a processo, verrà processato e molto probabilmente anche condannato. Secondo me basta leggere le carte con un minimo di lucidità, e c'è un quadro investigativo molto circostanziato contro Dassilva. Perché sai qual è, purtroppo, l'equivoco in cui tanti cadono ormai quando approcciano un caso di cronaca? Pensano: "O c'è la prova regina, oppure non c'è niente". Quindi, o c'è la prova regina, il Dna, la prova scientifica, oppure non c'è niente. Invece, secondo me, è esattamente l'opposto. Perché quando tutta l'inchiesta è attesa a una prova scientifica, è invece una fonte di debolezza dell'inchiesta, perché se cade quella prova scientifica, cade tutto. Ma quando, invece, un'inchiesta è circostanziata su tanti elementi di indagine che si vanno a incastrare l'uno con l'altro, disegnando un quadro completo, allora è molto più difficile che poi questa inchiesta venga, diciamo, disarcionata, nonostante la gente poi dica: "Non ci sono le prove, perché non c'è il suo Dna". Allora, io lì ti dico che invece c'è un quadro, secondo me, molto chiaro. Non sono d'accordo sul fatto che sia un caso partito come fiction, però. Perché, in realtà, il fatto che il cuore di quell'inchiesta sia questa relazione extraconiugale tra la nuora di Pierina e l'amico di famiglia è purtroppo il cuore dove matura l'omicidio di Pierina, ed è parte del movente. Ed è in quella relazione extraconiugale che matura l'inchiesta, quindi, gioco forza, si vanno a toccare delle dinamiche che teoricamente sarebbero potute restare private. Però, se sono elemento di indagine, purtroppo, in un modo o nell'altro finiscono per essere rese pubbliche.
E quindi, qual è la versione tra Manuela Bianchi, Valeria Bartolucci e Louis Dassilva che, secondo te, scricchiola di più?
Secondo me, quella che scricchiola di più al momento, fatto salvo il coinvolgimento di Dassilva, è quella di Valeria Bartolucci. Chi segue Quarto Grado sa che io, per mesi, ho incalzato la Bianchi dicendo che doveva dire la verità, che stava mentendo agli inquirenti, e mi ricordo che, in diretta, mi disse che mi dovevo vergognare. Il suo consulente, presente, mi diceva che non era vero, che lei aveva detto la verità, e io assolutamente la incalzavo sul fatto che doveva dire la verità e che mentiva agli inquirenti. È venuto fuori non perché lei a un certo punto ha avuto un rigurgito di coscienza, perché questo è ciò che poi la gente fatica a capire, ma in presenza di dati oggettivi. C'era un'indagine della Polizia fatta e condotta, secondo me, in un modo molto efficace, con degli ottimi inquirenti. L'hanno portata in qualche modo a farsi avanti, hanno smascherato le sue bugie. A quel punto, lei, spalle al muro, con la prospettiva di ritrovarsi con un reato e con la definizione del processo, ha ammesso le sue responsabilità. Responsabilità che comunque non attengono all'omicidio, ma attengono a quello che è successo la mattina successiva, al fatto che mentisse su ciò che era successo prima, al modo in cui lei ha determinato quello che poi è successo dopo, attraverso la relazione, attraverso il modo in cui lei stessa parla col fratello e ha un po' gonfiato Louis, senza naturalmente, a quanto ci risulta, pensare che la situazione potesse concludersi con un omicidio. Quindi, chiarita la posizione della Bianchi, che al momento sembra confinata lì, perché non sembra che lei possa avere una responsabilità nell'omicidio, penso che invece quello che rimane da chiarire è il perché Valeria Bartolucci, cioè la persona che, meglio di Louis, secondo gli inquirenti, continua a mentire e continua a offrire una copertura all'alibi di Dassilva. Perché tutto questo è, secondo me, l'aspetto che va chiarito prima della fine dell'indagine.

Per caso hai seguito anche il caso legato all'omicidio di Liliana Resinovich? Che idea ti sei fatto?
Certo, lo seguo dal primo giorno. Mi sono fatto l'idea, intanto, che il marito non c'entra nulla. Questo è uno dei casi, secondo me, proprio da manuale, perché è un esempio di quello di cui parlavamo prima, in cui, dal primo giorno, è stato creato il colpevole a livello mediatico. Anche con il contributo di molti che hanno indirizzato i media contro quest'uomo, di fatto lui è il colpevole dal primo giorno, è sotto processo nei media ormai da tre anni. Alla luce di tutti gli elementi d'indagine, delle carte che ho letto e di tutte le persone sentite, sono assolutamente convinto che lui sia totalmente estraneo a quello che è successo alla moglie Liliana. Si pensava al suicidio, ora con questa perizia si parlerebbe di omicidio. Se è così, e se davvero si tratta di omicidio, penso che rimarrà un caso irrisolto, non perché abbia una preveggenza, ma perché, avendo letto tutti gli atti, io non vedo davvero a livello investigativo dove si possa andare a parare. Non mi sembra che al momento ci siano elementi che non sono stati approfonditi e che, facendolo oggi, possano portare a uno sviluppo diverso dell'indagine. A meno che non emerga qualcosa o qualcuno che oggi noi non conosciamo, penso che non ci sia negli atti d'indagine uno spunto che possa portare in una direzione diversa e quindi è il motivo per cui penso e temo che rimarrà un caso irrisolto.
Dopo più di 40 anni, secondo te, riusciremo a risolvere il caso di Emanuela Orlandi?
Bella domanda! Mi piacerebbe tantissimo per la sua famiglia, per la mamma che continua ad aspettarla, per il fratello Pietro, una persona che veramente emoziona per il modo in cui ha votato la sua vita alla causa, per il modo in cui l'ha fatto, per il modo in cui, anche quando ha cercato di scuotere, spesso è stato quasi un po' redarguito in malo modo. Penso che sia una battaglia che veramente va oltre la nostra comprensione umana. Ti confesso che, come tante cose che succedono all'interno del Vaticano e che interessano anche settori del nostro apparato statale che sono in qualche modo coperti, penso e temo che non sarà facile.
Quindi credi che ci siano resistenze da parte del Vaticano?
Assolutamente sì, perché tra le persone che sanno cos'è successo a Emanuela, alcune non ci sono più, alcune si porteranno questo segreto nella tomba, e quindi diventerà sempre più dura e difficile. Chi sa la verità temo che non parlerà, non l'ha mai fatto e continuerà a non parlare.

C'è un caso che, lungo tutta la tua carriera, ti è rimasto più impresso e perché?
Yara Gambirasio. Perché una ragazzina di 13 anni che sparisce nel nulla in un contesto di vita borghese, una sera del 26 novembre del 2010, mentre esce dalla palestra per andare a casa, mi ha segnato. Forse è stato anche il fatto che al tempo stavo a Panorama e mi ha in qualche modo fatto abbracciare la cronaca nera in un modo che poi è diventato molto più coinvolgente nella mia vita. Andavo lì, facevo il giornalista, facevo il mio dovere con i volontari, cercavo Chiara, andavo in giro per i campi con i volontari quando finivo il mio lavoro, sperando di trovarla. Perché sono stati tre lunghi mesi in cui un po' tutti eravamo colpiti, soprattutto per la dignità e il decoro della famiglia, della mamma e del papà. In particolare il papà, all'inizio, è stato anche in qualche modo "sporcato" da qualche media, ma hanno mantenuto un decoro, un approccio che veramente mi ha colpito e che sempre mi colpisce. Quando venne ritrovato il corpo in quel campo di Chignolo, tre mesi dopo, mi ricordo che feci una promessa a Yara: che non avrei avuto nessun tentennamento quando e se fosse venuta fuori la persona che aveva determinato quello scempio. Lasciare una ragazzina di 13 anni in un campo ghiacciato a morire di freddo e di stenti...era qualcosa che mi squarciava il cuore. Dissi che non avrei avuto pietà per nessuno. Non nel senso di perdere lucidità, ma che non avrei fatto sconti a nessuno per quello che sarebbe dovuto essere il mio ruolo, e così ho cercato di comportarmi sempre con serietà. Poi, negli anni del processo contro colui che è stato indicato dalla giustizia come il colpevole, e che penso le sentenze di condanna siano state sacrosante, ho letto le carte, e non poteva esserci una soluzione diversa per quel caso. C'erano tutte le prove per una sentenza di condanna. Ho cercato sempre, quando la barca sbandava sulla spinta mediatica di chi ad arte alimentava i media in una direzione piuttosto che in un'altra, di rimanere ancorato ai fatti, al processo, agli atti, alla sentenza. Però, ecco, quel caso mi ha segnato.
Però Bossetti continua a definirsi innocente, ed è uscita anche una serie Tv su Netflix che quasi spinge a empatizzare con lui.
Bossetti si dichiara innocente e lo farà sempre. Ripeto, ha tutto il diritto di dichiararsi innocente. Io non so perché, quando approccio un caso, non mi pongo mai in termini di "innocente" o "colpevole". Infatti odio questa definizione di "innocentisti" e "colpevolisti", mi mette i brividi solo a sentirla. Perché è quasi come se uno dovesse fare il tifo per una posizione o per l’altra, come un tifoso, e questo per me è sbagliato. Non è così che vedo il mio approccio. Io non mi pongo mai la domanda "è innocente o è colpevole?". Sinceramente, faccio sempre una grande fatica a tracciare una linea netta tra l’innocenza e la colpa. Sono due concetti che quasi mi confondono. Non riesco a tracciare una linea chiara. Il mio approccio è un altro: ci sono le prove che giustificano una condanna? Sì o no? Nel caso dell'inchiesta su Yara, ho letto tutte le carte. Ho vissuto la storia anche fisicamente. Ho visto i luoghi, ho seguito i cani all'inizio quando facevano le ricerche partendo dalla palestra. Ho seguito il processo, le udienze chiave, anche fisicamente, dentro l’aula del tribunale. E ti posso dire quello che ho sempre espresso a Quarto Grado: le prove erano assolutamente a favore di una sentenza di condanna. Se ci pensi, tutti i gradi di giudizio, tutti i giudici che si sono espressi su quel processo, si sono sempre espressi per la colpevolezza. Se invece guardi il caso di Garlasco, Alberto Stasi è stato assolto in primo grado, assolto in secondo grado. Si è andati in Cassazione, e nel processo in Cassazione il procuratore generale, che rappresenta l’accusa, quindi non il suo avvocato difensore, dice ai giudici: "Signori, non ci sono le prove per condannare quest’uomo". Come vedi, il percorso processuale è totalmente diverso da quello di Bossetti, dove non c’è mai stato un giudice che si sia pronunciato in maniera difforme rispetto a una sentenza di condanna.
Se potessi, quale caso di cronaca ti piacerebbe risolvere?
Anche questa è una bella domanda. Forse quello di Garlasco, perché penso che veramente chi ha fatto le indagini sul posto, parlo dai rilievi fino ad arrivare alla conclusione, ha fatto un disastro senza precedenti. E poi, nonostante quel disastro, si è condannato un uomo non sulla base di una prova certa, ma sulla base di una prova in negativo, perché non può non essersi sporcato le scarpe camminando sulla scena. Se ci pensi, è una follia.
