Dici Daghestan e non ti viene in mente niente. Eppure da ore parlano tutti di questo strano luogo dove sono andati in scena uno, due, tre attentati. Oltre a sparatorie e assalti contro posti di blocco di polizia, chiese e sinagoghe, che hanno causato complessivamente la morte di 19 persone: 15 agenti e 4 civili, compreso un sacerdote sgozzato. Ci troviamo in Russia, nella parte più meridionale del Paese, in una delle repubbliche federali che costituiscono l'ossatura dell'immensa nazione guidata da Vladimir Putin. Non importa che il nome ufficiale sia "Repubblica del Daghestan": ci troviamo di fronte a una provincia della Federazione Russa.
Che cos'è il Daghestan
Per meglio capire di cosa stiamo parlando, il Daghestan si trova nel Caucaso, confina con l'Azerbaigian a sud e la Georgia a ovest, ed è bagnato dal Mar Caspio a est. Ci vivono circa tre milioni di abitanti, appartenenti a una trentina di gruppi etnici differenti, ma quasi tutti di religione musulmana. Il 90% segue la corrente sunnita dell'Islam, e cioè la più tradizionalista e conservatrice possibile. In un simile humus culturale sono proliferati gruppi terroristici, cellule dormienti e attentatori di vario tipo, molti dei quali affiliati all'Isis. Da qui sono emersi però anche personaggi diventati famosi in tutto il mondo, come l'ex (imbattibile) lottatore di Mma Khabib Nurmagomedov - quello che da piccolo si allenava lottando contro gli orsi – e la star dei social media Hasbulla, il ventunenne affetto da un disturbo della crescita diventato un meme vivente. Ma insomma, alla fin fine, che cosa è il Daghestan?
Perché è il “luogo più pericoloso d'Europa”
Nel 2011 la giornalista della Bbc Lucy Ash spiegava perché il Daghestan dovesse essere considerato “il posto più pericoloso d’Europa”. Ecco i motivi: i continui scontri tra le forze di sicurezza del governo locale, collegate ovviamente a Mosca, e gli estremisti islamici locali; i ripetuti attentati esplosivi; l'attività di bande criminali; le innumerevoli storie di torture e rapimenti. Non è un caso che, cercando “Daghestan” negli archivi delle agenzie fotografiche o dei principali media internazionali, otteniamo soltanto immagini o storie di cadaveri, auto in fiamme o edifici distrutti. Per anni nella capitale della repubblica, Makhachkala, sono andati in scena scontri a fuoco e crimini di ogni tipo. I militanti islamici hanno più volte preso di mira i negozi degli "infedeli", ovvero i venditori di alcool e prodotti proibiti dalla loro religione. Nel mirino dei gruppi estremisti ci sono poi sempre state le stazioni di polizia e le caserme. Fino al 2017, insomma, da queste parti la quotidianità era caratterizzata da violenze e scontri armati. Cosa è successo, poi, nel 2017? Il 6 dicembre di quell'anno, visitando la Siria, Putin dichiarava che la Russia era riuscita a vincere contro l'Isis. L'Fsb, l'agenzia di intelligence interna russa, spiegava che l'ultimo gruppo di ribelli nel Caucaso settentrionale era stato distrutto. Ogni minaccia terroristica islamica, a regola, era stata sradicata dal Paese. Andò in effetti più o meno così. Fino al ritorno dell'incubo: lo scorso marzo, a Mosca, alcuni estremisti islamici - poi arrestati in Daghestan – hanno effettuato una strage alla Crocus Hall. Poche ore fa, altri terroristi islamici hanno scosso le ultime certezze del Cremlino.
La tana russa del terrorismo islamico
A togliere il sonno di Putin c'è però un aspetto gravissimo: tre dei militanti uccisi e autori degli attacchi a Makhachkala, Derbent e Sergokala sono stati identificati come i figli e il nipote del capo del distretto di Sergokalinsky, Magomed Omarov. Non un uomo qualunque, bensì uno dei capi di Russia Unita - il partito di cui fa parte il presidente russo - in Daghestan. Questa regione rappresenta una vera e propria bomba a orologeria in seno a Mosca, ed è in effetti più croce che delizia per il Cremlino. È un canale per importanti oleodotti e gasdotti, che vanno dal Mar Caspio al cuore della Russia, ma è al contempo quasi mantenuta del tutto dal governo centrale russo, visto che l'80% del budget regionale è costituito da sussidi federali. Cosa ancora peggiore: il Daghestan non è mai riuscito veramente a risolvere le piaghe di crimine e corruzione. Il risultato è che, aggiungendo il credo religioso degli estremisti islamici ai kalashnikov dei banditi locali, da queste parti ha silenziosamente preso forma una minaccia letale in grado di far preoccupare il presidente d'acciaio Putin.
Calcio e occidentalizzazione: esperimento fallito
Domenica 23 giugno uomini armati con armi automatiche hanno attaccato una chiesa ortodossa e una sinagoga a Derbent, preso di mira una postazione della polizia stradale a Makhachkala e alimentato violenze pure a Sergokala, in tre assalti quasi contemporanei. Nessun gruppo islamico, al momento, ha rivendicato la tripla strage, anche se l'ombra dell'estremismo religioso è la pista più probabile. In passato, per evitare che potessero scoppiare simili episodi di violenza, Mosca avviò una politica di normalizzazione e occidentalizzazione del Daghestan puntando sul calcio. Il Cremlino si affidò ad alcuni oligarchi, incaricandoli di investire nel pallone. Su tutti spiccò il nome di Suleiman Kerimov, che rispose presente all'appello governativo finanziando la costruzione di stadi e campetti da calcio, ma soprattutto acquistando l’Anzhi Makhachkala, la squadra dell’omonima capitale, e dando il via ad una campagna acquisti di giocatori di livello internazionale. I più famosi? L'ex attaccante dell'Inter, Samuel Eto'o (13 milioni di euro a stagione), e l'ex terzino brasiliano del Real Madrid, Roberto Carlos, oltre all'ex tecnico del Chelsea, Guus Hiddink (10 milioni all'anno). L'esperimento durò appena tre anni, tramontando a causa delle difficoltà economiche riscontrate da Kerimov. I calciatori acquistati dall'Anzhi, in quel periodo, per motivi di sicurezza non vivevano neppure in Daghestan ma a Mosca. Ogni partita casalinga, l'intera squadra era costretta a prendere un volo di tre ore per spostarsi dalla capitale russa all'inferno del Caucaso. Salvo poi tornare, al sicuro, all'ombra del Cremlino.