Prima Fiat, poi Fca e adesso, o meglio dal 2021, Stellantis. La più storica azienda automobilistica italiana, nata a Torino dal Senatore Giovanni Agnelli, nei suoi centoventicinque anni (compleanno che sta per arrivare) si è spesso, e attentamente, trasformata in un perfetto camaleonte, capace di cambiare forma (ma soprattutto nome) in base alla situazione. La situazione più convenevole per lei, ovviamente. Ma in tutti questi anni per questo brand italiano, o che perlomeno prima era italiano, c’è stata sempre una costante: quella di chiedere, e ricevere, aiuti allo Stato italiano. Ovvero soldi, tanti soldi, tantissimi, e a volte addirittura troppi. Una situazione, di cui tutti sono sempre stati a conoscenza, anche se il numero preciso di soldi elargiti dall’Italia a Fiat è sempre stato un mistero, che adesso sembra non essere più tollerata. Il rapporto tra il Belpaese e Stellantis pare essersi inevitabilmente incrinato con il Governo attuale guidato da Giorgia Meloni. Tanti, infatti, sono stati i battibecchi a distanza, incluse evidenti litigi come il cambio nome dell’ultimo modello di Alfa Romeo (marchio Stellantis) da Milano a Junior, e poi la decisione di far togliere le bandierine italiane dalla Fiat Topolino e dalla 600 in nome dell’Italian Sounding (queste auto vengono prodotte all’estero). Ma la domanda non cambia: quanti soldi pubblici si sono presi? La risposta (non ancora definitiva) arriva da Milena Gabanelli e Rita Querzè nella rubrica Dataroom del Corriere della Sera. Insomma, chiedono le giornaliste, “a conti fatti il gruppo automobilistico, che in dieci anni ha cambiato due volte nome, quanto ha ricevuto dallo Stato italiano? E a fronte di quali impegni?”...
Il Gruppo, si legge nell’approfondimento del Corriere, “ha potuto contare su un’ingentissima quantità di fondi pubblici” al punto tale che “interi stabilimenti al Sud sono stati costruiti con risorse di Stato”. Dunque, continuano Gabanelli e Querzè, è “impossibile ricostruire quanto è stato dato in valore assoluto, e tantomeno le contropartite” per un’azienda che alle spalle conta oltre un secolo di storia; meglio, quindi, limitarci agli ultimi anni della Casa di auto degli Agnelli-Elkann. Fiat cambia definitivamente nome il 12 ottobre 2014, data della fusione con gli americani della Chrysler, e nasce così Fca (Fiat Chrysler Automobiles) con sede legare ad Amsterdam, mentre quella fiscale a Londra. E così l’Italian Sounding è già perso; anche se, riporta Dataroom, “il ceo Sergio Marchionne riduce la richiesta di aiuti pubblici”. Poi, nel 2020, “nel pieno della pandemia, con il governo Conte II in carica, Fca riceve 6,3 miliardi di prestito coperto da garanzia pubblica. La linea di credito – sottolineano Gabanelli e Querzè – doveva essere utilizzata per pagare gli stipendi, i fornitori e mantenere gli investimenti programmati in Italia. Denaro certamente utile alla fusione con il gruppo francese Psa, da cui nasce […] Stellantis, che si libera dai vincoli saldando i conti con un anno di anticipo”. Adesso questo colosso automobilistico italofrancese viene guidato dal presidente John Elkann e dall’amministratore delegato Carlos Tavares, “il ceo più pagato d’Europa – evidenzia il Corriere –: 23 milioni di euro l’anno, tanto quanto lo stipendio di mille dei suoi metalmeccanici”. L’inchiesta della coppia di giornaliste passa anche alla lettura del Registro nazionale aiuti di stato, il quale rivela che “da ottobre 2016 a gennaio 2024 sono stati versati, prima a Fca e poi a Stellantis, aiuti per 100 milioni di euro”, mentre “da fonte Inps […] fra il 2014 e il 2020 Fca ha ricevuto contributi per 446 milioni […] dal 2021 ad aprile 2024 la cassa sale a 984 milioni”. Insomma, tanto per farla breve in meno di dieci anni “abbiamo sborsato di tasca nostra quasi 887 milioni”. Soldi spesi bene?
Altro dettaglio per nulla banale del progetto Stellantis: in Italia non si producono più auto, e allora i nostri soldi a cosa servono? Negli stabilimenti italiani, rivelano Gabanelli e Querzè, “persi in tre anni 10 mila posti di lavoro”, ma non si tratta di licenziamenti, bensì di uscite volontarie incentivate con “scivoli” che hanno portato l’azienda ha investire la bellezza di sei/settecento milioni di euro (fonte Dataroom) per fare uscire lavoratori dagli stabilimenti ex Fiat; stabilimenti che adesso navigano in acque più torbide che mai. A Melfi, si legge sul Corriere, “fra il 1991 e il 2020 sono stati erogati 3,35 miliardi di fondi pubblici destinati alla costruzione dell’impianto e al suo indotto. Nel 2021, quando è nata Stellantis, i dipendenti erano 6.800, oggi sono scesi a 5.600. Mirafiori – continua l’analisi di Dataroom – nel 2006 produceva 218 mila auto, quest’anno secondo la Fiom, rischia di scendere sotto le 21 mila, il minimo storico”. Inoltre, “l’età media dei dipendenti è di 57 anni, vuol dire che se non ci saranno assunzioni chiuderà per consunzione”. Dall’altra parte della barricata, invece, la situazione è completamente differente: “A partire da gennaio 2021 a maggio 2024 Stellantis ha distribuito 16,4 miliardi di euro di dividendi, di cui 2,7 sono andati nella holding di John Elkann ad Amsterdam”. Al passato, lontano o recente che sia, bisogna aggiungere anche il presente e il futuro, tra nuovi aiuti statali (e una faida con il Governo) e altri progetti del Gruppo, ma sempre più all’estero. E intanto, conclude Dataroom, “gli impegni che erano stati presi, al momento sono solo chiacchiere”.