La vita di un attore è scandita dai ruoli che interpreta: un cardinale, un ispettore oppure un gerarca fascista. “Non mi piace pensare nei termini di passato, presente o futuro. Ciò che conta per me è l’esistenza attuale”: ce lo ha detto Maurizio Lombardi nell’intervista dalla Mostra del cinema di Venezia 2024. Dopo la serie Ripley, in cui Lombardi era l’ispettore Pietro Ravini, vero rivale di Thomas Ripley (Andrew Scott), la sua carriera è a un punto di svolta. E forse anche i colleghi inglesi e americani sono rimasti sorpresi: “Ho pensato di potermela giocare”. Visti i risultati, possiamo dire che lo “scontro” è stato decisamente alla pari. Dietro a un ruolo così, però, c’è un percorso che comincia da lontano. Maurizio Lombardi si è infatti costruito ciò che è oggi grazie allo studio, un’idea di bellezza e trasgressione, di cinema e di arte, discipline che “devono dare fastidio”. E Lombardi è ciò che è grazie ai suoi maestri, alle “partacce” (sì, è un fiorentino, e certe cose che ha detto abbiamo preferito non tradurle), alla loro durezza. Quei maestri che oggi mancano, forse. Ed è convinto che i film, anche quelli più radicali, sono possibili. Le idee sono chiare anche sull’intelligenza artificiale usata per scrivere (“È come la doccia con le mutande”) e su ciò che dei grandi autori occorre preservare. Il paragone tra Giacomo Leopardi e il suo “naufragar m’è dolce” e le “lacrime della pioggia” di Blade Runner, poi, sa di manifesto.
Maurizio Lombardi, molti parlano di quello che stai vivendo come di un “secondo tempo” della tua carriera: lo percepisci davvero così?
Credo che questa impressione derivi anche dal fatto che ultimamente ho lavorato a tante cose e questo ti porta inevitabilmente a ripensare la tua carriera. Quando inizi hai grande voglia di fare l'attore, di vincere l'Oscar, quando poi a un certo punto cominciano ad arrivare dei ruoli molto belli, come ho fatto ultimamente, avendo avuto la fortuna di lavorare con dei professionisti e degli artisti importanti, è normale che ti ripensi, perché poi ti si svelano tutti quei mondi che vengono portati da questi lavori.
E ora cosa ti aspetta?
Vediamo la drammaturgia di questa vita dove andrà, quale sarà un altro climax. Vediamo che cosa ci aspetta, insomma. Quindi sì, sono abbastanza d'accordo, è un secondo tempo.
Il ruolo dell’ispettore Pietro Ravini in Ripley ha avuto un impatto decisivo in questo processo.
Il racconto parte sempre da lontano, da un provino. Ci sono andato con una convinzione: basta con gli italiani spaghetti, mandolino e mozzarella, perché io non mi sento così, non lo sono. Invece gli americani continuano ancora a definirci così. È come se tutti gli italiani fossero, con tutto il rispetto dei grandi, tutti napoletani. E non siamo tutti napoletani. Io ho una scuola toscana, fiorentina. In Ripley ho voluto portare un ispettore tosto, che poteva dare del filo da torcere agli altri personaggi. Non voglio essere frainteso: sono orgoglioso che sul grande palco mondiale l’Italia sia rappresentata da una città come Napoli. I premi Oscar sono tutti napoletani, i grandi attori vengono tutti da lì ultimamente. Abbiamo Paolo Sorrentino, Toni Servillo, abbiamo i Teatri Uniti, delle realtà enormi. Però diciamo che l'Italia è Arlecchino, ha tanti colori, e io faccio parte di uno di quei triangoli di questo enorme vestito che è il nostro Paese.
Gli altri attori sul set come hanno preso questo tuo atteggiamento?
Penso che non se lo aspettassero. Gli inglesi si sentono degli dèi, per certi versi, perché comunque vengono dalla più grande realtà teatrale che ci sia, hanno delle scuole straordinarie, sono fenomenali. Io vengo dalla provincia e mi sono comunque detto: “Dai fatemi vedere che caz*o sapete fare”. Poi recitavano nella loro lingua, quindi per me c'è stata ancora più sfida. Al di là del piacere di poter duellare con Andrew Scott, un attore fenomenale, ho pensato di potermela giocare, anche perché il territorio è lo stesso.
Hai lavorato con Paolo Sorrentino per The Young Pope e The New Pope: qual è stato l’elemento su cui voi due vi siete incontrati?
Io ammiro tanto il lavoro di Paolo, perché è riuscito a riportare due cose essenziali in Italia che mancavano da secoli. Intanto è un grande cinema autoriale, ma contemporaneamente di grande respiro popolare. Tutti andiamo a vedere i film di Paolo. Piacciono. Sono film, fra l'altro, che riguardo. Perché non solo vedere i film ciò che conta, quanto rivederli. Quando un film non lo riguardo vuol dire che vale poco. I suoi li riguardo, perché mi diverte arrivare a quel monologo, a quella scena, a quel dettaglio. E Paolo è un grande disegnatore di personaggi. La seconda cosa è che ha riportato, dai tempi di Gian Maria Volontè, i grandi monologhi per gli attori. Servillo ha dei monologhi all'interno dei suoi film che sono finalmente lunghi. Il gesto e il corpo sono essenziali sia nel teatro che nel cinema: nel cinema di Paolo ritornano fuori e Servillo ne è un interprete fuori dal comune. Nei panni di Giulio Andreotti nel Divo, che sembrava quasi una caricatura di Giorgio Forattini, è stato magistrale. Insomma, queste sono vette che poi sono state copiate anche all’estero, perché il regista di Vice, il film con Christian Bale, ha detto di essersi ispirato a Il divo.
E Sorrentino sa scrivere come pochi.
Leggere le sue cose è una goduria, ti trasporta, ti sorprende, ti sbilancia. E poi ridi. Quella è un'arte che hanno pochi. La sceneggiatura è tutto, è la matrice. Se c'è un film scritto male si vede anche sullo schermo. I grandi film sono tutti scritti bene. Poi, chiaramente, il delirio dell'immagine, della narrativa e della grammatica del film è quello che, per così dire, veste la sceneggiatura. Quindi si finisce in quelle favolose elucubrazioni visive un po’ come in Apocalypse Now, per ricordare uno tra i titoli celebri. Però una grande sceneggiatura è la matrice per dare quello che manca oggi, secondo me, al cinema italiano.
Forse è quello che manca per renderlo internazionale.
C’è ancora domani non a caso è stato un successo. Paola Cortellesi ha vinto tutto perché ha scritto un film delizioso, con un bellissimo tema. Sembrava di vedere una commedia degli anni Cinquanta in bianco e nero. Ma è un film prima di tutto scritto bene. Si gode fino in fondo, con un coup de théâtre conclusivo. Quel genere di cose le guardavo su I bellissimi di Rete 4: mia madre lo metteva alle tre di pomeriggio d'estate e io vedevo Pane, amore e fantasia, Matrimonio all’italiana, C’eravamo tanto amati. Il film di Paola Cortellesi ha quella radice lì.
L’intelligenza artificiale come può cambiare la qualità della scrittura?
Secondo me la scrittura è come fare l'amore. Se lo deve fare un dildo al posto mio allora faccio prima a dire che sono impotente. Sono io che devo fare l'amore. Se la fa un apparecchio elettronico al posto mio o se c’è uno schermo di mezzo allora diventa come fare la doccia con le mutande, non sa di nulla. Sento tanti dire che l'intelligenza artificiale ci aiuterà: ma a fare cosa? Ciak, azione e io recito. Prendo un foglio di carta e scrivo. Se non sai scrivere stai a casa. Se ti fai aiutare da un programma allora vai a quel paese.
C’è disponibilità da parte dei produttori a fare film anche più radicali?
Devo ricordare la classica frase: “Questo film oggi non te lo fanno fare”. Mi spiegate cosa vuol dire? Perché? Chi? C'è un'università negli Stati Uniti che digitalmente ti fa l’identikit e quindi ti bolla con la lettera scarlatta per farti più accedere ai college?
Forse è più un discorso di accesso a fondi, finanziamenti: davvero tutti sono disposti ad accettare un certo tipo di proposte?
Se il cinema e l'arte smettono anche di scandalizzare non hanno più senso. Devono dare fastidio. Oltre a farti ridere, sognare, piangere, devono dare fastidio. Non c'è solo il bello visivo. Nelle madonne del Quattrocento di un Filippo Lippi, oppure di un Raffaello, anche lì c'è una grande trasgressione. Non sto qui a dire ciò che le rende trasgressive, che è nascosto in un particolare nei capelli. C'è in quelle madonne tanto erotismo, tanta meraviglia. Oggi si bandisce tutto questo. C’è la caccia agli untori, un maccartismo imperante.
Di film che trattano tematiche erotiche, relative alla sfera sessuale, ce ne sono: cosa manca per arrivare a quella trasgressione?
La trasgressione non sta solo nel vedere una scena di sesso o un corpo nudo. Si tratta anche del non detto, di uno sguardo, che è più potente a volte di fotografare un corpo mentre sta mettendo in scena un coito. La trasgressione non sta solo nella nudità, anzi. Noi abbiamo paura della parola. Ci stiamo evirando, è quello il problema. Già la nostra è una lingua povera, perché noi italiani usiamo dieci vocaboli. Se poi cinque li censuri…
Cosa rimane, quindi?
Va a finire che usiamo solo termini come straordinario, bellissimo, incredibile, meraviglioso. Cosa vuol dire? Superlativi di che? Venezia, sì, è un superlativo assoluto. Ma la nostra lingua si sta impoverendo.
Con i social si moltiplicano i modelli, ma di maestri ne sono rimasti?
Non vorrei tornare sui soliti nomi, ma Paolo Sorrentino è un maestro. Perché viene da un percorso, come si dice, di studi classici. Servillo è un altro che ha una pedagogia teatrale e attoriale impressionante. Anche io ne ho avuti, perché il mio maestro è stato Ugo Chiti, regista e drammaturgo con il quale sono stato nella compagnia dell'Arca Azzurra, e gli stessi attori mi hanno insegnato a recitare, il comportamento da tenere, lo stare in scena, mi hanno fatto le “partacce”.
Un aneddoto?
Una volta l’attore Massimo Salvianti, io avevo fatto una “bischerata” in scena, aprì il camerino alla fine del primo tempo e disse: “Questa sera qualcuno ha caga*o fuori dal vaso”, detto proprio in toscano. Io sapevo che si riferiva a me e stetti zitto, ma Massimo, capo comico, me lo aveva fatto capire chiaramente. Quello è importante. Manca questa durezza, a questi ragazzi basta dire qualcosa che subito si buttano giù. Si narra delle leggende di Giorgio Strehler che urla agli attori o di Luca Ronconi, anche lui durissimo: ma viva Dio! Tornassero degli autori così.
Tra i toscani va ricordato anche il Monni, ovviamente.
Sì, ricordo una volta in cui lo vidi in un locale per caso e lui era lì che praticamente recitava la Divina Commedia. Monni era fuoco. È così, mancano i maestri, lo sento.
Ora basta poco per essere in vetta, ma poi la caduta è immediata.
Oggi si riesce a diventare divi in un mese, “in tre balletti”, mentre prima ci volevano anni. Non hanno le basi, non hanno le palafitte, diventare divi è una sommatoria di cose. Io chiaramente non sono nessuno e non sono neanche famoso, lavoro tanto, però ho tantissimi anni alle spalle sia di teatro che di studi. E mi piace, mi diverto così, continuerò sempre, perché non si arriva mai.
Sembra quasi che se qualcuno non ha fatto niente prima dei trent’anni deve considerarsi finito.
Grazie alle piattaforme è cambiato tutto. C'è bisogno di ruoli, quindi tante persone hanno cominciato anche molto tardi. Dico sempre che comunque è uno sport, quello della poesia, che bisogna iniziare a praticare fin da piccoli, perché è importante. Però rispetto al tennis, dove se non inizi da piccolino non puoi giocare, nella recitazione puoi cominciare anche tardi e qualche colpo lo batti, qualche torneo lo puoi vincere.
Abbiamo parlato anche della necessità di una certa durezza: per te i giovani invece girano intorno ai problemi?
Ci sono molti filtri, quello sicuramente. Filtri anche nella seduzione. Ci sono delle storie che nascono e muoiono sui social, mandandosi foto un po' spinte magari. Non c’è più il bigliettino “ti vuoi mettere con me”, oppure l’amico che ti dice: “Piaci a Francesca della terza c”. Io andavo fuori di testa due mesi perché piacevo a Francesca. E magari non le avevo nemmeno detto nulla. Bisogna mettere a contatto i corpi, gli odori, i profumi, i liquidi: solo allora si comincia a far parte dell’altra persona. Se non c'è questo scambio si perde tutto. È facile nascondersi dietro una tastiera e scrivere, è facilissimo, manca sempre di più invece l'esperienza del desiderio.
Sei anche in M. Il figlio del secolo: cosa c’è di diverso in questa serie rispetto alle altre che parlano di quel periodo storico?
Una vita traboccante. Io ricordo che fino agli anni Settanta sia la destra che la sinistra erano vitalità totale, combattimenti, erano momenti spietati, carichi di dolore, ma portatori di una grande vitalità. Nel bene e nel male.
Ritorna il discorso dei maestri.
Io non faccio un discorso politico, perché non lo so affrontare da quella prospettiva. Io sono appunto, come diceva Totò, un attore; quindi ho un colore solo, quello del pubblico. La politica ha perso tutta la forza e oggi addirittura nessuno si ribella più a niente.
Si dice che nelle scuole non si deve fare politica, ma in realtà si è sempre fatta.
“Mio figlio non lo puoi toccare”, si dice. Sono “bischerate”. Quella che c'è in M. è una vitalità potente, preponderante, traboccante. Non voglio svelare niente, ma gli attori sono clamorosi. Finalmente siamo ritornati a vedere attori di livello. È bellissimo vedere Luca Marinelli, Benedetta Cimatti e Barbara Chichiarelli. Sono magnifici.
C’è quindi quell’energia che apparteneva a tutto il ventaglio politico: da giovane come ti ci sei rapportato?
I miei compagni di scuola erano molto politicizzati. Io lo ero meno, comunque. Poi mi piaceva la recitazione, volevo leggere, studiare. Era quella la mia rivoluzione. Però li ho sempre invidiati, perché sembravano avessero il verbo a portata di mano.
Quei giovani erano anche più predisposti al conflitto con i leader della generazione precedente, no?
A me non piace né uccidere i padri, psicologicamente parlando, né i propri maestri. Io credo che ci si debba continuare a nutrire di loro. Perché non c'è mai un passato, c'è sempre un colore che nasce in un determinato momento. Si può sempre ritornare a ciò che è stato. A me non piace pensare la vita nei termini di passato, presente o futuro: io sono per l'esistenza attuale, che si fa forza di ciò che abbiamo avuto, di ciò che è e di ciò che sarà. Per me un grande maestro dell'Ottocento rimarrà sempre tale. Se si è fatto qualcosa di grande, allora è sempre bello attingere da lì. Anzi, ritornasse un po' quella roba là. Giacomo Leopardi, per esempio, è ancora potente. “E il naufragar m’è dolce in questo mare” è come “le lacrime nella pioggia” nel finale di Blade Runner. Sono la stessa cosa.