Per risolvere le crisi servono i grandi vecchi, i moderati, quelli buoni per tutte le stagioni. E forse pure per salvare le serie di Netflix. Il 20 febbraio è uscita Zero Day con Robert De Niro, nel suo primo ruolo da protagonista in un prodotto seriale, con la regia di Lesli Linka Glatter. Christopher Mullen (De Niro) è un presidente americano in pensione, ritritatosi dalla vita politica dopo il dramma della morte per overdose del figlio. Ma un imprevedibile cyberattacco mette fuori uso i sistemi elettronici degli Stati Uniti, causando enormi danni sulle linee di trasporti, incidenti, morti negli ospedali: nello Zero Day perdono la vita migliaia di persone. Mullen viene richiamato dall’attuale presidente Evelyn Mitchell (Angela Bassett) per guidare una commissione dotata di poteri speciali, roba che neanche dopo il “Nine Eleven” si è vista, per scoprire i responsabili. Alex, l’altra figlia dell’ex presidente ora deputata, interpretata da Lizzy Caplan, è contraria al rientro del padre e teme la deriva “fascista” di un esecutivo così forte. Fuori dal palazzo c’è chi urla alla dittatura, su tutti Evan Green (Dan Stevens), il faro dei complottisti e del suprematismo bianco made in Usa. Dall’altra parte, c’è chi vede nel caos un modo per fare affari, sfruttando le brecce lasciate aperte da Roger Carlson (Jesse Plemons), un funzionario dal passato torbido e in aria di corruzione, ma che gode della fiducia di Mullen. I primi indiziati dopo l’attacco hacker sono i russi, ma la falsa pista si rivela praticamente subito. A peggiorare le cose sono le ambigue posizioni di Monica Kidder (Gaby Hoffmann), miliardaria e magnate dell’industria tecnologica, che attacca equamente la presidenza e la commissione guidata da Mullen, incapaci di tenere sotto controllo una crisi del genere senza adeguati mezzi tecnologici. Nel mezzo la Cia, i vecchi amici del presidente che provano a dare una mano, l’opposizione dello speaker della camera Richard Dreyer (Matthew Modine) e le misteriose allucinazioni di Mullen/De Niro: solo vecchiaia (Mullen ha 81 anni, come l’attore) o c’è di più?
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Insomma, Zero Day è una summa delle teorie del complotto e della “vecchia maniera” di risolvere i problemi: meglio affidarsi all’anziano Presidente, uno capace di ottenere “consensi bipartisan, garanzia di affidabilità e rigore (è maniacale l’accumulo di agende riempite di appunti - naturalmente presi a mano - di Mullen). Peccato che dei rapporti tra il capo della commissione e tutti gli altri personaggi sappiamo ben poco: quelli con la figlia, si dice (appunto, si dice e basta), sono tesi, talmente tesi che Alex presiede l’ufficio predisposto alla vigilanza della commissione di suo padre, quando in realtà il vero motivo sono le insufficienze di Mullen come genitore; dei vecchi agganci del presidente nei servizi segreti siamo costretti a fidarci, non sappiamo nemmeno bene perché; la società americana “sul punto di esplodere” viene rappresentata solo da poco frequentati picchetti appostati fuori dalle sedi delle imprese assicurative. E la storia più che politica – come avrebbe voluto Linka Glatter - rimane personale: è Mullen come padre, non come uomo delle istituzioni, che deve destreggiarsi tra vuoti di memoria, segreti di colleghi e familiari e allucinazioni uditive. Chi meglio del rassicurante Mullen, con la sua retorica del “guadagnati i riconoscimenti con le tue azioni” (davvero illuminante), fa al caso nostro? E non a caso sentiamo in loop la Who Killed Bambi dei Sex Pistols, segno inequivocabile che a morire sono gli innocenti: serve unirsi nelle difficoltà, lavorare insieme al di là delle differenze, per fronteggiare il nemico. È facile, in realtà, individuare nelle ambizioni dei singoli l’intero progetto di attacco alla democrazia. Nonostante gli enormi temi chiamati in causa, forzatamente sintetizzati in sei episodi, la serie sembra scritta mettendo insieme i più bassi pregiudizi e i timori dell’utente medio-basso di X. Alcuni elementi, poi, sembrano lasciati lì, come ammiccamenti allo spettatore, su tutti il cappellino “Panoply” di Kidder, così si chiama l’azienda della miliardaria hi-tech, che evoca solo vagamente il concetto di società della sorveglianza. Ma forse ce lo abbiamo visto solo noi. Green, il disinformatore conservatore e razzista, è l’eco sbiadita della Firecracker di The Boys. Infine, alcuni personaggi spariscono senza fare ritorno, magari nella speranza di una seconda stagione. Ma qual è la causa di tutto questo inferno? Una gran voglia di moderazione, in nome della quale si è disposti a far esplodere qualche treno, suscitando l’allarme terrorismo. Come la strategia della tensione negli anni di piombo in Italia, quindi. Leggete La trappola di Paolo Grugni o guardate Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio, che ci guadagnate qualche ora.
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