È tanta l’ambizione che Roger Federer ha coltivato tutta la vita per diventare il numero uno. Sacrificarsi ogni giorno in virtù del perfezionamento costante dei propri punti deboli: l’obiettivo più grande non permette sconti. Quella stessa ambizione lunga un’esistenza, però, difficilmente può essere racchiusa in un’ora e mezzo di film. Il regista Asif Kapadia sembra averlo capito: il suo documentario, infatti, si intitola Federer: gli ultimi dodici giorni. Non una carriera, ma solo l’ultima parte. Il finale attraverso cui, però, si può anche guardare a tutto ciò che è stato prima. Kapadia ha coltivato la sua di ambizione, quella di rappresentare le icone come Roger, Ayrton Senna o Diego Armando Maradona, ma senza l’arroganza di volerne cogliere per intero tutta la vita. Basta solo una parte. Già questa scelta lo rende grande e forse il più grande documentarista sportivo (ma non solo) del nostro tempo. In Federer: gli ultimi dodici giorni, Roger è rappresentato come l’atleta oltre il campo: il padre di quattro bambini, il marito di Mirka e l’insicurezza di chi non sa cosa accadrà dopo il ritiro. Ma c’è anche la solitudine. Ed è Federer stesso a parlarne: “A me piaceva stare lì da solo, in vetta”, dice mentre ricorda il momento in cui Rafa Nadal lo stava raggiungendo ai vertici. Il campione ci tiene a ricordare che più delle fasi “comunitarie” pre-torneo, dei momenti passati con Nadal, Andy Murray, Novak Djokovic, a mancargli sarà soprattutto una cosa: il tennis. Infine, l’ultima partita, alla Laver Cup. Un addio che i fenomeni del calcio, fuggiti in Arabia Saudita o in America a svernare, possono solo sognarsi. I grandi rivali che piangono, il pubblico che prega perché quell’ultimo set non finisca mai. Dodici giorni: Asif Kapadia ammette la propria debolezza e condensa il documentario in un tempo molto breve. E questa è la sua forza.
Ma il regista ha realizzato altri film su icone dello sport. L’ultimo in ordine di tempo, escludendo quello su Federer, è Maradona. Anche qui: non una biografia estesa e completa (e didascalica). Il cuore dell’opera sono gli anni di Napoli, l’ascesa di Diego a status di divinità, simbolo di una parte di mondo e della periferia d’Italia. Inevitabile, poi, la rapida caduta, tra dipendenza, un figlio non riconosciuto e i rapporti con la mafia. Una via di fuga illegale (e immorale) da una città che lo aveva reso prigioniero per eccesso d’amore. Il racconto lasciato a Maradona stesso, che con la sua voce è il filo rosso di tutti e 120 minuti. Al 2010, invece, risale Senna, in cui Kapadia ripercorre i dieci anni che corrono tra il debutto e l’incidente al Tamburello di Imola. Il regista intelligentemente lascia che siano le immagini a parlare, riducendo al minimo il suo intervento: quale modo migliore di raccontare Ayrton se non lasciare che la sua storia “si racconti da sola”. Quando le vite valgono lo script di un film, ogni aggiunta è retorica. Peraltro, Senna fu il primo documentario che la stessa famiglia del pilota acconsentì a girare. Nel mezzo a questi due sportivi, però, c’è anche Amy, con cui Kapadia vinse l’Oscar per miglior documentario nel 2016 (e che completa la trilogia dei “geni” con Maradona e Senna), sulla cantante emblema del talento buttato e dalle frequentazioni pericolose. Senza assolvere, né condannare la giovane Amy, Kapadia mette in scena le mancanze di chi l’ha circondata: il fidanzato, il padre e le amiche. Tragedie del genere non sono colpe singole, ma i fallimenti di tutti coloro che non hanno saputo (o potuto) capire il dolore di chi avevano a fianco. Poi Oasis: Supersonic sulla leggendaria band e Ronaldo, quello portoghese con il numero sette sulla schiena. Musica, sport, icone culturali e sportive, Asif Kapadia ha saputo farsi indietro rispetto a esistenze che erano già dei film. Senza sovrastare lo scorrere del tempo, garantendo la giusta luce alle immagini di chi è entrato nel mito.