Le notizie che giungono dal sistema carcerario italiano, specie quando toccano le corde sensibili dei diritti fondamentali, faticano a non farci un certo ribrezzo: è davvero questo il paese di Cesare Beccaria? L'ultimo episodio che ha coinvolto Alfredo Cospito, l'anarchico detenuto sotto il regime del 41-bis, è di quelli che sembrano provenire direttamente dalla cura Ludovico, o almeno, che ci interrogano profondamente sulla direzione che sta prendendo il nostro Stato. Negare a un uomo, per quanto controverso possa essere il suo profilo e le sue azioni passate, i libri che aveva regolarmente richiesto, non è solo una punizione; è un'aberrazione, un'ulteriore conferma di come la logica retributiva abbia ormai soppiantato ogni principio di civiltà giuridica e umana. Non è un caso isolato, certo, ma in questo specifico frangente la gravità è amplificata dal contesto. Il 41-bis, nato per contrastare la criminalità organizzata e impedire i contatti tra detenuti e il mondo esterno, si trasforma qui in uno strumento di annientamento della persona, persino nella sua dimensione più intima e intellettuale. Si nega la possibilità di leggere, di studiare, di accedere a quel patrimonio di idee che, per quanto scomode o critiche possano essere, costituiscono il nutrimento irrinunciabile per la mente umana. Si riduce l'individuo a un corpo da controllare, un'anima da spegnere, dimenticando che anche in un regime di alta sicurezza, il principio di rieducazione dovrebbe rimanere il faro.

Eppure, la Costituzione italiana parla chiaro. L'articolo 27 recita che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Cosa c'è di rieducativo nel negare l'accesso alla cultura? Nulla. C'è solo l'intento di fiaccare, di umiliare, di ridurre al silenzio. È un segnale pericolosissimo, che va ben oltre il singolo caso Cospito. È il sintomo di una patologia più ampia che affligge il nostro sistema carcerario, da troppo tempo ignorato o affrontato solo con palliativi. Le parole del Presidente Mattarella sull'urgenza di intervenire sulla situazione carceraria, i continui suicidi dietro le sbarre, le condizioni pietose di sovraffollamento, la lentezza esasperante nell'approvazione di indulti o di regimi alternativi alla detenzione: tutto questo dipinge un quadro desolante. Non possiamo più permetterci di rimanere indifferenti. La società civile ha il dovere di interrogarsi, di alzare la voce, di chiedere un cambio di passo.

Negare i libri a un detenuto non è solo una crudeltà fine a se stessa; è un atto che mina le fondamenta di una società che si professa democratica e rispettosa dei diritti umani. Significa abdicare all'idea stessa di recupero, di reinserimento, persino in casi limite. Significa accettare che la pena sia solo vendetta, e non anche strumento per la costruzione di un futuro, per quanto difficile e controverso. Non è questione di simpatia o meno per la figura di Alfredo Cospito. È una questione di principio, di dignità umana. Se lo Stato, nel suo intento punitivo, arriva a calpestare la libertà di leggere, la libertà di pensare, allora è lo Stato stesso che fallisce nel suo compito più alto: quello di essere garante dei diritti, anche e soprattutto in contesti di privazione della libertà. È tempo che i cittadini si mobilitino. È tempo di esigere che il carcere torni a essere un luogo di pena, sì, ma anche di possibilità, di riscatto, di umana considerazione. Perché se neghiamo anche i libri, abbiamo davvero negato tutto.