Diciamolo apertamente, se si era già vigili e presenti nel Novecento, che detta così fa sembrare la cosa più impegnativa di quanto non sia, lo so, stiamo vivendo questo terzo decennio del nuovo millennio come un mix di commiati celebrativi, mesti e dolenti, e di grandi ritorni, altrettanto celebrativi, certo, ma decisamente più allegri e pimpanti, seppur con un velo di nostalgia per quel che è stato e non tornerà più. Messa momentaneamente da parte la pagina dei necrologi, è normale, credo, che si è intorno ai cinquant’anni, forse anche di più, molti dei nostri eroi di gioventù abbiano superato quell’età per cui stare in vita è normale, fatto che comunque impatta clamorosamente con una modalità di comportamento media certo non esattamente salutista, stiamo pur sempre parlando di rockstar. È il caso di affrontare la faccenda dei grandi ritorni. Ritrovarsi tra le mani, metaforiche, spesso, ormai la musica è tutta in streaming, il nuovo lavoro di chi ci ha entusiasmato da giovani è giocoforza entusiasmante, perché prova, non sempre riuscendoci, a riavvolgere il nastro, e perché ci permette poi di dire ai più giovani qualcosa che suoni come “ok boomer un cazzo, senti questa…”. Se poi a nuovo disco, la parola vintage è d’obbligo in questo caso, segue un tour, o addirittura è solo il tour a essere il motivo dell’entusiasmo per il ritorno, beh, in questo caso essere gente di mezza età, quindi presumibilmente con un lavoro, e quindi, sempre presumibilmente con la possibilità di prendersi un biglietto ormai genericamente troppo oneroso, fa di sicuro la differenza. Ma vuoi mettere spendere soldi per andare a un concerto in cui c’è gente che suona davvero e gente che, di nuovo, canta davvero? Certo, il tutto fa spesso miracolosamente rendere invisibile il vero motivo di questi grandiosi ritorno, la pecunia, il recente caso dei Cccp ha così tanto appassionato i social e più in generale la rete che star qui a sottolineare l’ovvio è quasi avvilente, spesso qualcosa di particolarmente piacevole rimane particolarmente piacevole anche se sappiamo che ci fa male, figuriamoci se sappiamo che dietro c’è un motivo ideologicamente ritenuto sbagliato che ci frega a noi.
Così, mentre le classifiche di singoli e di album, quelle che sostanzialmente tengono conto solo di ascolti a due spicci fatti su Spotify ci mostrano sempre nomi bizzarri di trapper, rapper o al limite artisti indie sopravvissuti alla peste, e mentre il tanto gridato ritorno del vinile è in realtà più una speranza che un dato di fatto, i numeri sono ancora esigui e comunque il vinile di supporto a registrazioni in digitale è una specie di fatto contronatura, sappiatelo, ecco che in un metaverso cui nessuno ancora si è premurato di dare un nome non c’è settimana che non compaia il nome di un artista già attivo negli anni Novanta, decennio paragonabile all’Eldorado per chiunque ami la musica che tale si possa definire, che torna con un nuovo progetto, o il cui nome non finisca nel cartellone di un qualche festival, spesso entrambe le cose. Senza neanche starsi troppo a sforzare, ecco i Pearl Jam, ecco Liam Gallagher con John Squire, ecco Kim Gordon, ecco i Black Crowes, e, ripeto, non ho neanche consultato Google o sbirciato la mia discoteca. Ed ecco i La Crus. Un ritorno vero, questo, per almeno due ottimi motivi. Primo, perché in effetti per un po’ di tempo Mauro Ermanno Giovanardi, detto Giò, Cesare Malfatti e il terzo La Crus, autore dei testi mai visibile sul palco o su disco, Alex Cremonesi, si erano tenuti a distanza, giusto incrociandosi una tantum, una sonorizzazione cinematografica fatta al La Mia Generazione Festival di Ancona, di cui Giò era direttore artistico, un live lo scorso 25 novembre, ma senza alcun tipo di progettualità, almeno dichiarata; secondo perché nel farlo, anticipato dal primo live dell’imminente nuovo tour, settimana scorsa a Pesaro, è appena arrivato un nuovo album, dove per nuovo album si intende un album che contenga canzoni inedite scritte per l’occasione, non roba trovata chissà come nei cassetti, progetto dal titolo Proteggimi da ciò che voglio, otto brani nuovi di zecca più due ripescaggi dal vecchio repertorio, qui proposti in nuova forma e con ospiti eccellenti, rispettivamente Carmen Consoli, a duettare nella sanremese Io confesso, e Colapesce e Dimartino, a impreziosire la già preziosa Come ogni volta.
Un album nuovo, quindi, prodotto da Matteo Cantaluppi, decano delle produzioni indie, qui chiamato a fare da consulente di coppia per mediare alle indubbie differenze tra i due La Crus frontali, Giò e Cesare, il primo più votato alla forma canzone d’autore vera e propria, e un po’ anche al pop, il secondo decisamente sperimentale, poco propenso a mediare, un album nuovo che già per il numero di tracce dimostra come ai La Crus, di essere contemporanei, si intenda questo termine come pronunciato da qualcuno con il naso arricciato, di chi pensa, a ragione, che la contemporaneità su certi fronti abbia fatto più danni che altro, la disattenzione imperante, il pronti via su qualsiasi argomento, tanto poi si passa subito a altro, il flusso che vuole la musica solo come sottofondo. Ecco, già per il numero di tracce il nuovo album dimostra come ai La Crus di essere contemporanei frega davvero poco. Che poi, fare un album è roba vintage, oggi ragionano su singoli, intesi proprio come che a ogni singolo uno si gioca l’intera carriera. Mentre qui c’è un album album, otto tracce più due riedizioni, niente megacollezione di brani, tanto non sono bimbiminchia e non monopolizzerebbero anche volendo la classifica di singoli, e l’epoca dei cd coi brani riempitivi è lontana, e neanche qualcosa che suoni anche vagamente come ruffiano occhieggiare alla musica d’oggi, la voce profonda di Giò è sempre la voce profonda di Giò, il nostro Scott Walker, le basi concepite da Cesare di volta in volta acustiche e eteree, ma anche elettroniche, seppur mai spinte, Cantaluppi in questo è stato magistrale, presente nel mediare tra le differenti anime, ma assolutamente coerente con la storia della band, storia interrotta quindici anni fa, mica ieri, le parole di Alex, qui sì la contemporaneità è di casa, eccome, a raccontarci l’oggi con lo sguardo lucido di chi ha vissuto anche lo ieri, la filosofia sociale a fare da impasto, il tutto raccontato con la parola “polieticamente”, mix di poesia, etica e politica che ben si addice a una presentazione fatta a due passi dall’Accademia di Brera, sì, ma in quella Casa degli Artisti che nacque ormai oltre cento anni fa per ospitare chi da Brera se n’era andato da dissidente, sorta di Bauhaus meneghina, e di chi comunque ha in mano le chiavi per decifrare il tutto e raccontarcelo senza troppi filtri di bellezza.
Così ecco che dentro le nuove canzoni, come per una magia, la voce calda e antica, con quegli eco anni Sessanta di Giò ci canta di chi si trova a fronteggiare l’odio degli odiatori seriali sui social, come questa nuova forma di capitalismo annullante che, per un uso scorretto dello smart working, ha portato i lavoratori in remoto a vedere sempre più confusa vita privata con orari di lavoro, una riedizione del “produci consuma crepa” dei Cccp che sotto la cura La Crus diventa Mangia dormi lavora ripeti, passando per la presa di coscienza che oggi come oggi una qualsiasi ipotesi di rivoluzione verso un sistema che ci sta sostanzialmente trattando come ingranaggi è impossibile, perché è assente un repressore, l’altalenarsi tra il serio e il faceto del brano omonimo, La rivoluzione, ospiti Vasco Brondi e Slavoj Zizek, filosofo e politologo sloveno, vero spirito guida di Cremonesi nella stesura delle liriche, a rendere il tutto su fermo immagine. Un album a fuoco, come del resto erano stati a fuoco tutti gli album della band milanese, con le loro evoluzioni poetiche, dall’ermetismo iniziale a uno sguardo esistenziale Dietro la curva del cuore, stavolta il mondo esterno a farla da padrona. Una band dove l’insieme delle singole personalità, mai così tanto nitide e al tempo stesso distanti tra loro, porta a una miscela dall’impatto potentissimo, il tirare il freno a mano mentre si corre in autostrada, chiunque abbia visto un film della serie Fast and Furious ben lo sa, fa fare testacoda mica da ridere, in epoca di frammentarietà ipermuscolare, Bpm sempre altissimi, pochi secondi e già i ritornelli, funziona. E funziona perché pone la bellezza al centro della scena. Bellezza che guarda al sociale, alla storia e alla Storia, usando gli stilemi della canzone d’autore, ancora una volta, è la matrice La Crus, giocando a intersecare il proprio guardare alle radici con quello che di buono, direi di ottimo, è stato l’alternative, senza necessariamente provare a stare dentro i canoni angusti di quel che oggi passa il convento. Canoni, non parlo di musica ora, che con le loro canzoni nuove cristallizzano, col fine poi di farli crollare. Come succedeva ai ribelli della serie tv Snowpiercer, le braccia tenute fuori dal treno, al gelo, quindi fatte diventare blocchi di ghiaccio al solo scopo, poi, di sbriciolarle. Punizione esemplare di stampo maoista, colpirne uno per educarne cento. Cristallizza e distruggi, lì. Cristallizza e fai esplodere sotto i colpi della bellezza, qui, e tanti saluti al neoliberismo di cui, diciamocelo apertamente, faremmo tutti volentieri a meno. A volte ritornano, titolava Stephen King la sua riuscitissima raccolta di racconti brevi, tanti anni fa, dove il soggetto sottinteso erano i mostri, quelli che vivono nel buio sotto i nostri letti quando andiamo a dormire. I La Crus sono tornati per lottare con noi dalla parte del bene, prendiamoci cura di loro.