Tre giorni, un weekend: questo è stato il tempo che abbiamo trascorso al Festival di Cannes. Ci sono stati i film (di Kind of Kindness ne abbiamo già scritto), gli incontri con Paolo Del Brocco e Giampaolo Manca e le notti in cerca di storie. Nel mezzo, però, è successo di tutto. Alcuni di noi hanno avuto delle crisi esistenziali, altre volte si è cercato (invano) di entrare in serate impossibili, infine l’ultima notte passata nella discoteca più figa di Cannes: il Silencio. Quei tre giorni abbiamo cercati di viverli al massimo, in pieno stile MOW. Rock’n’roll, direbbe qualcuno. E come ogni esperienza à là MOW, non può mancare il reportage definitivo. Ecco le cronache dal Festival di Cannes.
Giorno 1: mental breakdown, amministratori delegati e cinema indipendente
Se il racconto dal Salone del Libro cominciava con refuso in stile Karl Kraus (qui il pezzo di Ottavio Cappellani), il nostro deve cominciare con un messaggio: “Andateci!”. Sì, Gianmarco Aimi che dice a noi due, Ilaria Ferretti e Domenico Agrizzi, di partire per la Francia. Prenotiamo un bed and breakfast, richiediamo l’accredito e siamo pronti. Troppo tardi per l’aereo: si parte in macchina. Arriviamo venerdì 17 maggio, quando il Festival è nel vivo. Incontriamo Axel, la proprietaria del bed and breakfast, ci mostra la stanza e sembra a posto. Appena se ne va, però, notiamo la prima “sòla”: non c’è il WiFi. Niente di male, questa è solo la ragione per cui ci toccherà rimanere fino a chiusura nella sala stampa del Palais du festival. Siamo arrivati, dunque. Dobbiamo incontrare Malcom Zeta, produttore indipendente da anni emigrato in America per fare cinema. È la prima volta che lo vediamo. Subito tasta il terreno chiedendoci un parere sul cinema italiano e i finanziamenti pubblici. Malcom Zeta si trova a Cannes per promuovere un documentario sulla famiglia di Francis Ford Coppola (presente in concorso con Megalopolis, il film su cui il regista sta lavorando da quarant’anni). Capiamo il suo rancore nei confronti dell’industria cinematografica italiana: “Io me ne sono andato e ho costruito la più grande community al mondo: la Wild Filmmaker”. Per il momento tutto regolare. Ci dice che qualche personaggio si può incontrare al padiglione italiano all’interno dell’Hotel Majestic: “Il padiglione più figo, ma chi lo paga?”. Entriamo e becchiamo l’intervento della sottosegretaria Lucia Borgonzoni: sta parlando di sport e cinema. È irraggiungibile. Nella stanza accanto c’è Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema. Gli chiediamo un’intervista e lui accetta. Anche Malcom Zeta però, vuole fare delle domande. “Non crede che dopo 15 anni ci dovrebbe essere un ricambio all’interno di Rai Cinema?”, o ancora, “Mi dia un consiglio: come faccio a diventare amministratore delegato?”. Del Brocco non la prende benissimo e inizia uno scambio di opinioni accesso. Tutto nella norma, senza toni eccessivi, ma comunque acceso. Alcune parti dell’intervista non piacciono a Ilaria Ferretti, preoccupata delle “conseguenze”. Il nostro produttore indipendente non è d’accordo e vuole pubblicare l’intervista integrale: “Questo è vero giornalismo”, garantisce. “Altrimenti cambia mestiere”. Ecco il momento magico: mental breakdown della nostra Ilaria, mai così incerta del suo futuro nel mondo del giornalismo, a causa delle stilettate dell’indipendente Zeta. Lacrime e sangue, sudore e “ora mi incazzo”. Chiamiamo Gianmarco Aimi: “È tutta esperienza”, ci dice. In realtà, Gianmarco sta palesemente godendo a vedere i suoi sottoposti scontrarsi con la durezza del mondo. Sappiamo che, nonostante tutto, lo fa per il nostro bene: “Mettete tutto nel reportage, anche la crisi di Ilaria”. L’intervista, alla fine, l’abbiamo portata a casa, con o senza il beneplacito del produttore di cinema indipendente Malcom Zeta.
Giorno 2: “Il Doge” di Venezia e i falchi dell’Hotel Majestic (con un bicchiere di Champagne)
Dopo la crisi esistenziale del giorno prima decidiamo di parlare con il direttore Moreno Pisto: “Ringraziamo Gianmarco Aimi per averci regalato un'altra seccatura”. In effetti, ci dice, l’intervista era la nostra e certi suoi interventi, forse, il produttore Malcom Zeta se li poteva risparmiare. Ma incentrare tutto questo reportage su di lui ci sembra eccessivo. In fondo non è successo niente. Il secondo è il giorno dei film e il primo è Kind of Kindness di Yorgos Lanthimos (Ilaria è una fangirl). Troppo lungo, dicono molti. Era meglio Poor Things, dicono gli altri. Il dubbio che Lanthimos legga MOW, comunque, ci è venuto: nel suo film c’è il casco di Ayrton Senna, il food (cannibalismo, per la verità, ma comunque food), le auto, gli orologi. Chissà. Il pomeriggio invece vediamo Oh, Canada, di Paul Schrader (il fanboy, in questo caso, è colui che scrive), già sceneggiatore di Taxi Driver e regista di American Gigolò con Richard Gere. Non ci convince, ma Schrader è Schrader, quindi glielo perdoniamo. Mentre siamo in sala Gianmarco ci inoltra un numero di telefono: è Giampaolo Manca, “il Doge” di Venezia, ex boss della Mala del Brenta. Ci attende sempre lì, al Majestic. Arriviamo in anticipo all’appuntamento e decidiamo di prendere da bere. Chiediamo un prosecco. Il Majestic è un hotel a cinque stelle, ogni notte costa circa 2500 euro. Non hanno il prosecco. “Qui abbiamo solo champagne”, ci fa sapere la barista, senza nascondere un sorriso. Errore da principianti. A quel punto non si torna indietro e ‘sto calice di champagne ce lo prendiamo. Sponsor della serata è un’azienda di falconeria. Ogni tanto i responsabili passano tra i tavoli con un falco sul braccio: “Serve a scacciare i piccioni”. Da lontano riconosciamo Giampaolo Manca, accompagnato dalla regista (e compagna) Gianna Isabella Magliocco. Il Doge è elegantissimo e pronti via ci fa sapere quanto lo facciano ridere tutti questi personaggi vestiti come pagliacci: “Ma dove vogliono andare…”. Ci racconta un paio di aneddoti di quando, da ragazzo, i ricchi di tutto il mondo si fermavano a Venezia per il Festival: “Sai quanti gioielli all’Excelsior che c’erano”. Ricorda, poi, di quella volta che, insieme al fratello Fabio, decise di rubare il motoscafo di Onassis: “Abbiamo girato il Lido tutta la notte. Non ci hanno mai beccati”. CI introduce Gianna e le raccontiamo di aver visto il film di Scharder. Le chiediamo se anche a lei piace: senza parlare, alza la manica, e mostra un tatuaggio con la faccia di Robert De Niro con la cresta, come nel film di Martin Scorsese. Non c’è partita. Proviamo a scroccare un lasciapassare per qualche serata a chiunque, ma nessuno ci dà garanzie. Senza invito non si entra. Giampaolo propone: “Basta che uno spari in aria con una pistola e gli altri entrano quando la sicurezza è distratta”. Quanto gode il Doge a fare queste battute per vedere l’imbarazzo di chi lo ascolta. Quella notte, però, l’arma non ce l’abbiamo. Ci tocca il giro dei bar tamarri. Per quelli non serve l’invito.
Giorno 3: “Silencio” e “italiani no”
L’ultimo giorno scorre liscio. La mattina lavoriamo, ora di pranzo intervistiamo Giampaolo, prima di cena cerchiamo qualche storia in giro. La sera, però, dobbiamo inventarci qualcosa. Tiriamo fuori il vestito buono e partiamo. Conosciamo un produttore (anzi, un producer, “che è diverso”) amico di Ilaria che dice di avere un aggancio per la serata del Silencio, la discoteca sopra il casinò di Cannes. Prima, però, pare ci sia un pre-serata nel Marché, ovvero il piano del Palais du festival dove si fa networking, i distributori vendono i loro servizi e i produttori cercano partner. Arriviamo alle transenne poco prima di mezzanotte. C’è un uomo che litiga con la security: “Ho pagato 25mila dollari per sponsorizzare questa serata e voi non mi volete far entrare?”. Il problema, però, non è dello staff del Festival. C’è la polizia di mezzo: “Dopo le 11:30 non si può far entrare nessuno: è una norma stabilita dall’antiterrorismo”. “Ah, quindi mi trattate come un terrorista…”, sottolinea lo sponsor. Considerati i tempi in cui viviamo, la conversazione si fa grottesca. Un poliziotto, che in 10 minuti avrà fumato almeno cinque sigarette, se la ride a fianco dei colleghi: “Secondo te lo fanno passare?”. Capiamo che non entreremo. Decidiamo quindi di metterci in fila al Silencio che, per la cronaca, dovrebbe essere una costola della discoteca di David Lynch che si trova a Parigi e che, durante l’evento più atteso di Francia, “trasloca” a Cannes. Il “contatto” del nostro producer finalmente esce: è ubriaco lercio, ed è anche lui un producer. È accompagnato da tale Janna, una tizia tedesca di cui non capiremo mai il ruolo. Francamente, una delle persone più insopportabili della storia del Festival di Cannes: manco ci saluta, si ferma ogni tre secondi a parlare con sconosciuti, promette che “sì, entrate con me” e poi ci lascia a piedi sul più bello: “Non l’ho mai vista ridere”, dice il producer suo amico. Infatti, dopo un’ora buona il buttafuori (un omone di quasi due metri con completo grigio, mocassino nero, occhiali verdi da Rick Ross e barba smussata col goniometro) ci dice di andarcene. Come nei migliori club di Berlino, l’entrata è a sua discrezione. In realtà annusiamo che la ragione sono i due “producer”: uno è sbronzo, l’altro gli sta semplicemente sulle palle. Se ne vanno: “Ci dispiace, sarà per la prossima volta”. Noi però vogliamo riprovare. E ci riusciamo. Il boss ci dice di passare: “Dos es mejor que cuatro”. Chissà perché in spagnolo. Il locale è effettivamente molto figo, ma il dj è piuttosto scarso: al locale di David Lynch ti aspetti una musica minimamente ricercata, non il remix di Travis Scott. I gin tonic, poi, fatti col Bombay e la Schweppes: poco cool. Tutti sono vestiti bene, ubriachi e sudati. Qualcuno si fa di popper. Nel bene e nel male, con o senza Janna, producer o meno, la notte a Cannes l’abbiamo vissuta. Non sarà il reportage di Moreno Pisto dal Festival di Sanremo, ma almeno un po’ di rock’n’roll noi ce l’abbiamo messo.