Un anno fa, al Vox di Nonantola (Modena), i Rats festeggiavano i 30 anni di “Indiani padani”. Domenica 12 novembre tornano in pista, fra fiumi di bionde e scure, al Beered Festival, all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno (Bologna). In mezzo a un bill fittissimo, loro, da Spilamberto. Da Modena, Wilko Zanni, chitarra e voce, Romi Ferretti al basso, Lor Lunati alla batteria e Lele Leonardi, primo chitarrista del gruppo che poi – nel corso della carriera – si è trasformato in ottimo session man (iniziò in quella veste nel 1993 con Massimo Riva in versione solista). Quattro ratti visceralmente rock, sbattuti in faccia a chi li ha già nel cuore, ma anche a chi li conosce appena. Siamo riusciti ad intervistare Wilko Zanni e questo è quello che ci ha raccontato in esclusiva per MOW...
Cosa volete provare, a voi stessi e al pubblico?
Nulla, davvero. Perché in questo momento essere ancora Rats è un atto libero ma velleitario. Siamo fuori tempo, fuori moda, fuori tutto. Facciamo rock per noi stessi. O meglio, facciamo rock perché il rock non ci ha mai mollato. Per dieci anni, fra il 1998 e il 2008, i Rats non sono esistiti. Vite separate, completamente. Poi ci siamo ripresi, inizialmente solo come amici. La reunion che è seguita a quel nuovo incontro l’abbiamo fatta per noi. All’epoca, via MySpace, ricevevamo molti messaggi che ci chiedevano di tornare insieme a suonare, ma il nostro motore ultimo è stata la nostra voglia, il nostro desiderio, il nostro bisogno di calcare di nuovo un palco. Senza nulla da dimostrare. Perpetuiamo la storia dei Rats per invecchiare meglio.
E quindi, oltre a chi vi invocava negli anni d’oro di MySpace, qual è il vostro pubblico oggi?
Ci siamo resi conto di essere una band transgenerazionale. Come i Pooh (ride, nda). Abbiamo sempre avuto, e abbiamo tuttora, un rapporto molto stretto con la gente. Siamo ancora quelli che a fine concerto si fanno due chiacchiere e una birra con chi ha sudato sotto il palco. Lo trovo un atteggiamento rock. Sebbene il rock – non inganniamoci, a riguardo – abbia degli evidenti limiti biologici.
Quali?
Sono convinto che si possa fare rock fino a 29 anni o giù di lì. Da quel momento, per ragioni fisiche e mentali, la credibilità vacilla. Davvero un quarantenne risponde alla vita con la stessa foga e la stessa esuberanza di un ventenne? Lasciamo stare lo “spirito rock”, che pure esiste. Il rock è una risposta istintiva, talvolta violenta, ai primi subbugli della vita. Superata una certa età puoi ancora farlo, ma diventa un’altra cosa. Non è più “realtà”, ma “rappresentazione”, “teatro”.
Quindi cosa pensi del fragore suscitato dal recente Gran Gala Punkettone dei CCCP a Reggio Emilia?
Mi è parsa un’operazione tesa a promuovere ciò che sta accadendo ora intorno all’universo CCCP. A Reggio Emilia c’è la mostra fotografica, e poi a Firenze, al Festival dei Popoli, la premiere del film di Andrea Paco Mariani e Luigi D’Alife, Kissing Gorbaciov (che uscirà al cinema il 24 novembre, nda).
Un film che vi riguarda.
Assolutamente sì. Narra del nostro tour sovietico del 1989. CCCP, Litfiba, Rats e i pugliesi Mista & Missis, tutti insieme, nel marzo 1989, alla scoperta di Mosca e Leningrado sotto gli occhi di un funzionario del KGB che ci seguiva ovunque. L’anno prima alcuni gruppi rock sovietici suonarono per la prima volta oltre cortina. E dove? A Melpignano, un paesino del Salento! L’anno dopo toccò a noi andare a casa loro.
E lì, tra Perestrojka e glasnost, siete stati testimoni di uno storico passaggio di consegne.
Sì, i CCCP divennero CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti) davanti ai nostri occhi, durante il volo per Fiumicino, di ritorno da Mosca. Quasi avessero presagito che la fine fosse vicina, i CCCP abbandonarono il loro progetto sovietico qualche mese prima che il Muro crollasse. Mentre il mondo del Patto di Varsavia si stava sgretolando, la loro entità si modificava insieme a quel sogno. I CSI, infatti, furono un’altra cosa, completamente. Un po’ Litfiba (Giorgio Canali, Gianni Maroccolo, Ringo De Palma, Francesco Magnelli) e un po’ CCCP (Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni).
Pensa che c’era gente, che vi scopriva per la prima volta con Indiani padani (1992), che vi considerava uno strano incrocio fra Ligabue (autore peraltro di Fuoritempo, inclusa nel disco) e i CCCP.
Bizzarra, questa cosa (ride, nda), ma non mi sorprende più di tanto. I Rats hanno attraversato varie fasi, varie dimensioni. Fino alla fine degli anni ’80 siamo stati punk-wave con tocchi goth-rock. Poi con Romi e Lor siamo diventati più viscerali. Romi era plasmato dall’hardcore californiano, Lor veniva dal prog. Aggiungeteci il fatto che io ho sempre scritto canzoni: strofa, ritornello e bridge. E che abbiamo sempre cantato in italiano.
Il periodo appena descritto è già successivo alla primissima incarnazione dei Rats. Quelli di C’est disco , album che risale addirittura al 1981.
Quella era ancora un’altra band. Una delle pochissime band a cantare in italiano (sinceramente non ne ricordo altre) ad essere mandate in onda da John Peel durante le sue leggendarie trasmissioni radiofoniche per la BBC. Un album, C’est disco, che Rumore ha recentemente inserito al numero quattro nella classifica dei 100 dischi essenziali new wave e post-punk italiani.
Un bel salto fra quei Rats e quelli che anni dopo avrebbero creato un notevole buzz con il singolo Chiara e il relativo album, Indiani padani. Cosa vi allontanò, qualche anno dopo, dalla CGD e dal mainstream?
Non voglio espormi troppo, su questo punto. Si tratta di una vicenda che forse un giorno racconteremo, dall’inizio alla fine. Diciamo che la nostra presenza alla CGD era legata alla figura di Stefano Senardi, che credeva molto in noi. E forse a ragione, visto che Indiani padani vendette 50mila copie, non poche per un disco del genere. Chi lo sostituì – Senardi se ne andò 6 mesi dopo la pubblicazione di Indiani padani – ci sbatté la porta in faccia. Mi fermo qui.
Artisticamente, però, non siete mai passati inosservati. Tutto ciò che avete prodotto ha sempre suscitato l’interesse di qualcuno. Anche di Luciano Pavarotti, giusto per fare un esempio. La figura che meno verrebbe spontaneo associare ai Rats…
Eppure… Una mia canzone finì sull’album, Ti adoro, che il maestro fece uscire prima di morire. Un disco fitto di ospiti, da Jeff Beck a Luca Barbarossa. Scrissi il pezzo – Come aquile – insieme ad Andrea Bellentani. Pavarotti se ne innamorò, e questo per me fu enorme motivo di orgoglio. Fu registrato ad Abbey Road, a Londra, con la London Philarmonic Orchestra, non so se mi spiego.
Da Red Ronnie a Pavarotti, un viaggio imprevedibile. Red vi ha seguito parecchio agli esordi.
Credo che nei suoi archivi abbia centinaia di ore di filmati che ci riguardano. Una quarantina d’anni fa aveva sempre la telecamera sulla spalla. Concerti, viaggi. È la memoria storica della new wave italiana.
La new wave italiana, appunto. La scena bolognese e quella fiorentina, all’epoca, si potevano considerare rivali?
In un certo senso sì, la scena bolognese nasce prima ed è più punk. C’era maggiore varietà al suo interno. Pensa quanto diversi fra loro potevano essere Gaznevada, Confusional Quartet e Skiantos. Era una scena polemica, politica. La Firenze Wave nasce qualche stagione dopo ed è più arty, inglese e dark (la IRA Records, i primi Litfiba, i Diaframma). Noi non siamo mai stati né troppo bolognesi, né troppo fiorentini, e infatti ancora oggi sono in ottimi rapporti con Piero Pelù, Ghigo Renzulli, Federico Fiumani.
Sfuggenti come ratti, in fuga da ogni etichetta.
Eravamo giovanissimi. Il successo che ancora oggi riscuote C’est disco quasi mi commuove. Anche chi lo ha scoperto dopo “Indiani padani” lo ama. Il filo conduttore di tutte le nostre fasi, comunque, è stata la spontaneità, la genuinità. Siamo sempre stati veri. Ma oggi, che tu sia vero, interessa a qualcuno?