La parola chiave di Nicola Savino, ospite al podcast Tintoria, è autoironia. La puntata, tra un’imitazione e l’altra, è un viaggio autobiografico tra mutande contenitive, coltellate romantiche e fotografie post-defecazione firmate Fiorello. Savino parte dalla Playstation, nello specifico da Fifa, il videogame che trasforma adulti realizzati in dirigenti sportivi con deliri di onnipotenza. “Prendo il Cosenza, trucco tutti i parametri e parto con un budget di un miliardo di euro. Sempre dalla serie B, perché il Cosenza anche con un miliardo di euro parte dalla B. Quindi non posso prendere subito Mbappe, devo prima andare avanti, ma finisce sempre che il mio Cosenza ha in attacco Mbappe e Haaland". Uno che non gioca per vincere, gioca per riscrivere la storia. E lo fa barando, come un buon italiano medio. Cresciuto nella bolla artificiale di Metanopoli, la città fondata da Enrico Mattei a San Donato Milanese per i figli dei dipendenti Eni, Savino la racconta come una realtà parallela: “Eravamo tutti figli di ingegneri, quindi c'era un ambiente in cui lo studio era importante. Anche se io la parola culturale l'ho deviata subito sulla musica. Anche, orgogliosamente, musica di mer*a. Perché milioni di mosche non possono sbagliare: la mer*a è buonissima”. Questa è da tatuare.

A proposito di provincia e curve, la scoperta del disagio sociale arriva tardi: “Ho scoperto che esistevano i poveri nel 1990, frequentando la curva a San Siro. Anche perché a San Donato non c'era ancora la metropolitana, eravamo un po' isolati. Era tutta campagna. Ma anche la curva era tutta campagna. Ci si approcciava al tifo in modo diverso. Certo, qualche coltellata, ma si faceva per la squadra e non per il controllo del territorio". Un romantico d’altri tempi, quando ci si accoltellava per fede e non per business. Poi arrivano gli anni universitari a Pavia, quelli passati non tra libri e seminari, ma nella sala giochi Jolly Blu, quella celebrata dagli 883: “Un grande onore giocare lì”. La nostalgia di chi ha capito che il tempo migliore era quello buttato male. E come dimenticare Radio Deejay, dove Gino Paoli “ha fumato. È stato l'unico a farlo”. Una nota quasi sacrale, come se fosse entrato nella sala stampa del Quirinale e si fosse acceso una sigaretta su un busto di Pertini. Vista l’ossessione di Linus per lo sport, una bestemmia in chiesa. Ma il vero delirio arriva proprio parlando di Linus, ma a partire da un paio di mutande. “Non so se è perché frequento Linus, ma ultimamente indosso solo mutande da sport. A mutanda, un po' altina, perché poi con l'età mi piace tenere tutto più vicino, cerco di contenere. Insomma, un po' ci sta la pancera della minch*ia”. L’anti sex-symbol definitivo. Un manifesto della virilità che non si vergogna di contenersi.

Infine, il colpo di teatro, l’aneddoto che dovrebbe valergli un contratto a vita con Netflix, o quantomeno una serie su Prime Video: “Fiorello, che all'epoca era famoso come Taylor Swift, era in fissa con una macchina fotografica, di quelle con il rullino. Fotografava tutto. Andiamo a fare una serata in discoteca insieme, era gennaio. Faceva freddo, e sono uscito fuori dal locale accaldato. Una volta salito in macchina ho iniziato a sentire problemi. Dico all'autista: fermiamoci, fermiamoci. Mi risponde, col caz*o, se mi fermo ci scuoiano, ho le auto della Polizia dietro. A un certo punto non ce la facevo più e gli faccio: basta, cago in macchina, poi vedete voi. Quindi si ferma, vado nel classico prato. Mi accovaccio, tiro giù i pantaloni e arriva Fiorello: flash. Quindi ancora adesso ho queste foto”. Non è comicità, è antropologia. È il ritratto del nostro tempo: dove anche chi ha fatto successo, chi ha visto la gloria, la fama e Fiorello con una macchinetta fotografica, non riesce a salvarsi dal momento umiliante per eccellenza: quello in cui, letteralmente, ti fai beccare con le braghe calate. Ma almeno ci ridi sopra.

