Un Borghese a Venezia non passa mai inosservato. Alessandro, lo chef-star di 4 Ristoranti, ha appena aperto “AB - Il lusso della semplicità” dentro al Casinò, affacciato sul Canal Grande. Location da favola, certo, ma anche affitto da 251 mila euro l’anno (Iva esclusa). Risultato: la sua ormai iconica “cacio e pepe” la paghi 28 euro. Sui social, manco a dirlo, c'è chi grida allo scandalo e chi difende i costi folli della Serenissima. Intanto, a Bologna, c’è chi propone la mancia obbligatoria in percentuale: l’idea è di Piero Pompili, patron di “Ottomani”. Una rivoluzione? O l’ennesima tassa che rischia di allontanare ancora di più i clienti dai ristoranti? E poi c’è Oscar Farinetti, il visionario di Eataly e Fico, che da eroe del Made in Italy è passato a fare i conti con i bilanci in rosso, mentre qualcuno (come chef Guido Mori) ha liquidato la sua proposta con due parole: “Offerta imbecille”. Insomma, tra prezzi stellari, scontrini gonfiati e format che non decollano, la ristorazione è nel mirino. Noi di MOW abbiamo chiesto cosa ne pensa Edoardo Raspelli, il “cronista della gastronomia”.

Borghese ha aperto un ristorante a Venezia. La sua cacio e pepe costa 28 euro. Prezzo alto o giusto?
Bisogna fare un discorso generale. Quando entro in un ristorante mi devono portare il menù con i prezzi. Sarebbe bello che un ristorante avesse i prezzi esposti anche fuori, all’ingresso. Comunque ormai sui social e sui vari siti ci sono i menù, ci sono i prezzi. La cosa importante è che nessuno venga preso alla sprovvista. Quindi, ad esempio, quel ristorante di Milano, mi pare si chiami Procaccini, che non conosco, e che fa la “carbonara d’oro” a 70 euro, da un punto di vista legale non ha nulla di scorretto. Il punto è che questi ristoranti molto costosi, a me, da giornalista, non interessano. Io li provo, certo, ma poi segnalo soprattutto i posti alla portata di tutti. Perché oggi un ristorante da 100 euro a testa significa 400 euro per una famiglia di quattro persone: è improponibile. Considerando che un papà porta a casa 1.200-1.500 euro al mese, come si può pensare che vada al ristorante e spenda un terzo dello stipendio in una sera? È per questo che molti ristoranti chiudono, o aprono solo alcuni giorni alla settimana, o addirittura chiudono sabato e domenica, che un tempo erano i giorni delle feste in famiglia. Oggi la gente evita: il sabato e la domenica si sta a casa, perché spendere 400-600 euro per andare al ristorante è insostenibile. Sempre più spesso i ristoranti che vanno avanti sono quelli dove la clientela è “obbligata” a mangiare: chi lavora fuori città, chi è in trasferta. Ma non più la famiglia media. Questo dovrebbe far riflettere.
Certi locali sono più per turisti, gente abituata al lusso, non la clientela media...
Certo. Negli anni Sessanta, quando è nata la ristorazione di massa, si andava fuori ma stando molto attenti a quello che si spendeva. Negli anni Settanta l’Italia ha seguito il modello francese e sono arrivati i grandi ristoranti: Pinchiorri, il San Domenico di Imola, l’Einsbeck a Roma, il Charleston di Palermo… Era l’Italia del lusso, ma la gente poteva permetterselo. Oggi no. Alessandro Borghese è un grande professionista. Nonostante la televisione, lui cucina. Venezia però è una città carissima, piena di gente, a me non piace. Ma il ristorante di Borghese rientra nella categoria dei locali seri, gestiti da chi sa il mestiere.
Invece, cosa ne pensi dell’idea della mancia obbligatoria nei ristoranti?
Allora, diciamo che il servizio già spesso viene applicato come voce a parte, ed è indicato. A me è capitato di trovare in conto cifre non indicate, ed è scorretto. Ma ciò che mi dà più fastidio non è tanto il “pane e coperto”, che pensavo fosse stato abolito, quanto l’acqua. Spesso ti portano acqua filtrata e la fanno pagare anche 4 euro a caraffa, spacciandola per “acqua del sindaco”. Oppure non trovi più la minerale classica, ma solo quella filtrata. Ecco, questa è una pratica che trovo sbagliata.

Però a Bologna, Piero Pompili ha proposto di aggiungere, oltre al servizio, una mancia in percentuale destinata direttamente ai camerieri.
La percentuale del servizio dovrebbe essere riservata al personale, non al ristoratore. Bisognerebbe capire cosa dice la legge, e se è il ristoratore a incassarla. Se la percentuale andasse davvero ai camerieri, sarebbe giusto. Ma il problema è la trasparenza: bisogna che il cliente sappia cosa paga e a chi va. Il rischio, con tutte queste voci aggiuntive, è che la gente si stanchi. Già molti non possono permettersi il ristorante, se ci aggiungi nuove spese, la disaffezione aumenta. E questo è preoccupante, perché andare a mangiare fuori è uno dei grandi piaceri della vita.
E su Oscar Farinetti, invece? Con la crisi di Eataly e Fico.
Secondo me l’idea di Farinetti era geniale. Un grande spazio con eccellenze italiane tutte insieme, comodo da raggiungere, con grandi nomi: la cucina di Guido di Rimini, i prosciutti di Ruliano, la pasta di Amerigo, il cioccolato Venchi… Io lì ho mangiato bene più di una volta. Era un progetto pensato per Bologna, città della gola per eccellenza. Poi la trasformazione da “Regno della Gola” a Fico, con attenzione all’agricoltura, era interessante. Mi dispiace che ci siano stati problemi, perché ho sempre stimato Farinetti. Certo, se imprenditorialmente non ha funzionato significa che i numeri non hanno retto. Probabilmente si aspettavano migliaia di persone al giorno, ma non sono arrivate. Da goloso, per me era un progetto bellissimo.
Quindi, secondo te, anche i prezzi di Fico erano un problema per il pubblico?
No, assolutamente. Io a Fico ci sono stato più volte e ho scritto diverse recensioni. Ti dico solo che nel 2020, ad esempio, avevo dato un voto di 14,5 su 20: non un giudizio da strapparsi i capelli, ma comunque più che dignitoso. Alla carta si spendeva sui 90-100 euro, mentre i menu degustazione costavano 40 euro per tre portate e 55 per quattro: prezzi abbordabili, ben lontani da certe follie. E parliamo di piatti veri, non di improvvisazioni: ricordo ostriche, tartare, passatelli con triglia e arancia, sogliola, tonno scottato, persino dolci come la cassata. C’erano grandi firme. Io ho mangiato bene e l’ho raccontato: era un percorso tra eccellenze italiane, in un contesto che voleva essere monumentale. I prezzi non erano affatto un ostacolo, anzi. Il vero problema, secondo me, è che avevano previsto migliaia di visitatori al giorno, e invece quelle folle non si sono mai viste.
Quindi non ti spieghi il fallimento?
Sì, forse la strategia di marketing è stata sbagliata. È un peccato, perché era un grande biglietto da visita per la gastronomia italiana, da mostrare al mondo e ai turisti. Mi dispiace che abbiano avuto, e abbiano ancora, così tanti problemi.
