Un viso tondo, sereno, senza l’ombra di una ruga, incorniciato dal soggolo, ho appena scoperto che così si chiama quel nastro bianco che sorregge il velo, velo come l’abito tra il marroncino e un grigio militare tendente al celestino. Ai piedi un paio di Crocs, forse non di marca, ma questo è un pensiero mio, volendo anche romantico, figlio di retropensiero, Crocs del colore delle tute mimetiche. Non riesco a staccare gli occhi dalle Crocs, perché dondola i piedi, come i bambini piccoli che seduti non riescono a toccare terra, troppo bassi rispetto alla sedia che li ospita. Al suo fianco, a portata letteralmente di mano, uno di quei trabiccoli che chi ha fatica a camminare usa per andare in giro, una specie di piccolo carrello per la spesa, con un manubrio munito anche di freni e un piccolo ripiano sul quale si trovano un paio di libri. Ha un nome, ci dice, prima di pronunciare una frase in francese, che suona vagamente come una filastrocca. Non ho idea di cosa abbia detto, ma non è rilevante. Siamo in una stanza le cui pareti sono coperte da librerie, che ospitano in realtà non troppi libri. Noi siamo seduti su delle poltroncine, lei su una sedia, perché faticherebbe altrimenti a rialzarsi. Il trabiccolo le serve per camminare, a causa di una caduta che le ha procurato un brutto trauma, con tanto di operazione alla testa. Su un tavolino, a fianco alla porta di accesso a questo salottino, c’è un tavolino con prodotti di artigianato, manufatti come centrini per la tavola, presine per il forno, tovagliati, tutti fatti a mano. È caldo, qui dentro, ma mai quanto lo è fuori, dalla porta finestra che si trova dal lato opposto all’ingresso si intravede un gran bel giardino, ovviamente con piante l’ulivo e altra vegetazione tendente al grasso, ma l’aria è come palpabile, tanto è torrida e umida. Siamo al primo piano sotto il livello della strada del Convento delle suore di Santa Coletta, ad Assisi. Dico siamo perché con me c’è la mia famiglia, tutti qui per festeggiare il nostro venticinquesimo di nozze. Davanti a noi, ma è ovviamente una coincidenza, c’è Suor Colette, francese di nascita, assisana d’adozione, che è la suora del convento, un convento di clausura, preposta a incontrare gli ospiti. Assisi è una cittadina piuttosto singolare, direi unica, nota per essere stata la culla di San Francesco, ogni due passi ci si ritrova un convento, una chiesa, una basilica, un qualche richiamo a una spiritualità che è comunque palpabile anche solo nel vedere i tanti turisti, molti stranieri, che si muovono per le viuzze, spesso salite o discese, del centro. Non che siano diversi dai turisti che capita di incontrare, per dire, nelle nostre città d’arte, ma è indubbio che qui ci sia un qualcosa di diverso, di inspiegabile, comunque riconducibile a quel nome che a questa città è indelebilmente legato a doppio filo.
L’idea di andare a far visita alle suore di clausura è stata di mia moglie, Marina, perché più volte è capitato di parlare di questa scelta, antica, definitiva, apparentemente fuori dal tempo. Ovviamente, la parola clausura dice già molto, incontrare le suore di clausura non è semplice, anzi, in alcuni casi è proprio impossibile, la scelta delle suore che hanno sposato questa modalità di vivere isolate fisicamente dal resto del mondo a precludere la possibilità di un contatto che non passi che attraverso una grata, anche la vista impedita, e anche lì, comunque qualcosa di complicato da organizzare. Ma mia moglie è ostinata, e visto che abbiamo deciso di celebrare il nostro venticinquesimo di nozze presso la basilica di San Francesco, ai tempi siamo stati sposati in una celebrazione che comprendeva anche un frate francescano che poi si è trasferito qui, si è messa di buzzo buono finché non è incappata in suor Colette, nel modo meno plausibile possibile, scrivendole una mail. Dico questo perché ci si immagina, appunto, le suore di clausura distanti dalla contemporaneità, da quel mondo veloce, iperconnesso, nebulizzato cui ci dedichiamo tutti i giorni, e anche perché, forse per preconcetto, ci immaginiamo le suore di clausura tutte anziane, antiche come la loro professione di fede. In effetti suor Colette è anziana, nonostante il suo viso non presenti ruga, ce lo dirà tra le righe, raccontandoci di aver preso i voti negli anni Sessanta, e di essere arrivata qui ad Assisi nel 1972, quando io e Marina eravamo ancora poco più che bebè. Nata in un paesino dalle parti di Lyon, ci racconta, è diventata suora col nome di suor Lucia, perché non voleva che il suo nome, Colette, appunto, coincidesse con quello della santa al cui ordine era votata. Il suo nome di battesimo sarebbe tornato in un secondo momento, entrata in un convento dedicato al Sacro Cuore di Gesù, salvo poi ritornare presso un convento dedicato a Santa Colette, proprio questo dove la incontriamo. È un primo pomeriggio caldissimo, ma neanche per un secondo vediamo una smorfia di fastidio sul suo volto. Anzi, è sempre sorridente, come volando alto sui nostri affanni da mortali. Ci chiede con curiosità i nostri nomi, da dove veniamo, cosa facciamo. Siamo tanti, rientriamo in quella che tecnicamente viene chiamata una famiglia numerosa. Alterna domande e racconti, così scopriamo che non è sempre stata la suora del convento di clausura in possibilità di incontrare gli esterni, e scopriamo anche che pur essendo lei una sorta di ambasciatrice delle altre dodici suore che compongono il convento, tre appena arrivate dal centro Africa, nettamente più giovani delle altre, per poter uscire fuori, nel mondo, deve comunque sempre avere un permesso da parte della madre badessa. I motivi che la possono vedere uscire, a parte quelli sanitari, come quando dopo la caduta è stata sottoposta a un intervento chirurgico alla testa, è più che altro per acquisti che non sono possibili in altra maniera. La spesa quotidiana, infatti, quella relativa al cibo, ma anche ai materiali per la pulizia e l’igiene, arrivano al convento esattamente come succede a noi che viviamo nelle grandi città, almeno a quella porzione di noi che fa la spesa online. Qui magari non si usa Amazon, azzardo, ma si telefona a un supermercato, che però non manca di portare quotidianamente la spesa. Anche perché, oltre alle tredici suore, ci sono sempre delle volontarie, ragazze che in cambio di vitto e alloggio offrono una mezza giornata di lavoro, aiutando le suore più anziane, oltre che dei visitatori che possono pernottare in una serie di casette ospitate appunto nel giardino che vediamo oltre la vetrata della porta finestra. Un modo alternativo di alloggiare ad Assisi, alternativo agli alberghi o a Airbnb, nel caso delle volontarie, anche un modo per assaporare una vita che altrimenti rientrerebbe in caso solo nel campo della fantasia. Suor Colette, e questo è forse l’aspetto più spiazzante, lo si legga in chiave positiva, come di chi ama essere spiazzato dagli eventi della vita, sorpreso e lasciato a bocca aperta, non è affatto “fuori dal mondo”, tra le sue parole, che partono spesso da citazioni di padri della chiesa, o di autori classici, citazioni che arrivano dopo pause di silenzio che altrove ci metterebbero a disagio, ma che qui sembrano non solo plausibili, ma assolutamente coerenti col tutto, c’è una chiara conoscenza di quella che è la società oggi, le sue dinamiche, anche quelle più violente e accelerate, quelle che ai suoi occhi immagino suonino parecchio distorte, ma anche le possibilità che il vivere in un mondo in cambiamento e in evoluzione offre.
Intendiamoci, non voglio ora star qui a dire, che so, che suor Colette ha fatto una esaltazione dell’ai, non l’ha fatto e più che stupirmi mi avrebbe sconvolto in caso l’avesse fatta, ma ha parlato del senso di costruire una famiglia oggi, nel mondo, con parole che chi una famiglia l’ha costruita, con la fatica e la dedizione che provare a tenere botta nei continui cambiamenti e nelle continue turbolenze che la società odierna regala quotidianamente comporta. Ci ha chiesto cosa facciamo e, parlando ai nostri figli, cosa intendono poi fare, senza, come magari ci si sarebbe potuti aspettare, rispondendo un po’ troppo a un cliché un po’ da sceneggiato di Rai 1, star lì a indicare l’ipotesi di una vita monastica, di più, di clausura, come possibile, ma parlando proprio di vivere nel mondo e in famiglia, non per volontà di precludere altre scelte o ipotesi, ma immagino anche per rendere in qualche modo omaggio al motivo che ci ha spinto fino a Assisi da Milano. Ha parlato anche della “grande città”, con la curiosità di chi da tempo vive lontano da grandi centri, cinquantadue anni qui sono davvero tanti, e anche con una punta di invidia, quasi, per chi conosce qualcosa che lei in vita non ha conosciuto, salvo poi aggiungere, ancora una volta spiazzante, “vorrà dire che girerò il mondo quando avrò finito i miei giorni in Terra, come spirito”. Discorsi che, me ne rendo conto ora che ho riletto quanto scritto fin qui, sembrano davvero “strani”, fatti da chi non ha, appunto, i piedi per terra, le Crocs verde militare a muoversi per tutto il tempo sospesi dal suolo, ma che, vi giuro, nulla di alieno hanno avuto ai nostri orecchi, lì a guardare il suo sorriso serafico, la sua serenità assoluta, contagiosa. Serenità che ci ha trasmesso la percezione, fondata anche dalle sue parole, di avere di fronte una persona, portavoce delle sue dodici consorelle, assolutamente connessa al mondo. Ma connessa non solo tramite la mail, con la quale mia moglie l’ha contattata, ma più che altro su un piano spirituale, altro, questo sì. Una connessione che evidentemente non potrà subire un crash come quello di questi giorni, il cloud che va a farsi benedire, lasciatemi usare un linguaggio consono al luogo nel quale mi trovo, mandando a gambe all’aria banche, ferrovie, aeroporti, un po’ tutto il mondo per come lo conosciamo oggi. Salutandoci, infatti, ripetendo i nostri nomi, suor Colette ci ha detto che ci avrebbe ricordato, da questo momento in poi. Una frase che messa in bocca a qualcun altro, anche a me o a chiunque stia leggendo, suonerebbe come di circostanza, quelle cose che si dicono tanto per dire, ma che è risuonata come la cosa più certa del mondo, a prova di aggiornamento o di virus informatico. Benvenuto in questo ambiente, ci dicevano un tempo i nostri primi pc quando entravamo in Windows, il jingle composto all’occasione da Brian Eno a fare da colonna sonora. In questo ambiente, solitamente chiuso agli estranei, siamo decisamente stati i benvenuti.