Il Fronte popolare! I suoi pugni chiusi sollevati, le bandiere rosse. Le certezze apodittiche: “¡No pasarán! Non passeranno…”. Questa volta infatti non sono passati. Eppure in Francia, i “fascisti”, erano certi di sfondare; figli e nipoti del maresciallo Pétain, del cartolaio Poujade, ora coetanei della razza Le Pen, il padre già in divisa da parà in Algeria. La persistenza del sentire che per semplicità chiameremo fascista, nel suo ininterrotto amore per la semplificazione autoritaria, è il caldo bene rifugio subculturale dell’eterna piccola borghesia, vale per tutte le nazioni. Un “mostro” che pretende una risposta politica. Il sentire regressivo, coltivato fin dal giorno delle prime comunioni dai pulcini della “zona grigia”, poco importa se a Santa Maria Maggiore o a Notre Dame, gli stessi che appena adulti, i primi peli sulle gambe o il semplice sentore di ciclo mestruale, aderiranno, almeno dalle nostre parti, a Gioventù nazionale, vivaio post-adolescenziale di Giorgia Meloni, chiama alla mobilitazione “civile”, doverosamente repubblicana. Anche Giorgia Meloni confidava nella vittoria annunciata di Marine Le Pen e del suo “balilla” Jordan Bardella, pupillo della giovane destra in blazer. Restando a casa nostra, l’inchiesta di Fanpage ha raccontato che tra i Fratelli d’Italia - i “patrioti” - il germe nero è un sigillo identitario; marsupio e trousse da viaggio. Rifiutando l’ineluttabilità antropologica del fascismo, di fronte alla sua evidenza occorre fare ricorso a un “blocco” che al fascismo, appunto risorgente, (e qui l’eterno fascista pronuncia una frase che gli è propria, quasi d’ufficio: “Ma se il fascismo è morto ottanta anni fa?”) assuma le sembianze condominiali di un cartello elettorale. Si sappia che la spiegazione più istantanea del fenomeno F. si deve al liberale Ennio Flaiano: “Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il Fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di culture, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli ‘altri’ le cause della sua impotenza o sconfitta.” Storiograficamente il termine “diga” è di pertinenza lessicale democristiana, rammentando che negli anni Cinquanta tale metafora ingegneristica era indicata come ottimale per fronteggiare l’avanzata “comunista”, sembra opportuno attestarci invece sull’immagine iconica del “Fronte”. Ancor meglio se popolare. Nuovamente bandiere rosse e pugni chiusi sollevati di sfondo, si è già detto? E magari anche “El Pueblo Unido Jamás Será Vencido”, canzone degli Inti-Illimani risuonata ancora ieri a Parigi. Volendo, anche “l’Internazionale”, magari nella versione di Billy Bragg, cantautore militante antagonista britannico, cui dobbiamo anche un brano dedicato a Shirley Temple.
In Francia, per rispondere alla Vandea lepenista è sorto il Nouveau Front populaire, infine incredibilmente vittorioso (con Jean-Luc Melénchon che esulta), esatto, il nuovo fronte popolare, molte le suggestioni che tale nome e cognome proprio politici comportano, pretendono, affermano. Giunge così il ricordo del Fronte popolare del 1936, comunisti socialisti e radicali dal berretto frigio nel simbolo che avanzano verso place de la République, bianco e nero epico, a pochi istanti dalla guerra di Spagna che vedrà la mobilitazione internazionale antifascista, il luogo di reclutamento parigino delle Brigate Internazionali oggi prende nome di place du Colonel Fabien, giovane eroe del “maquis”, lì sorge adesso la sede del Partito comunista francese, un'astronave architettonica aliena progettata dalla mano di Oscar Niemeyer, nel suo anfiteatro sotterraneo un gioco di specchi fa sì che non si formi mai un’ombra tra mano e penna in chi stia prendendo appunti. Gli ascensori simili all'orgasmometro mostrato da Woody Allen in Il dormiglione. Suggestioni epiche: i cortei dell’ormai remoto 1936, dove brillavano perfino le scope innalzate dalle donne di servizio, ragazze dell’umile Esagono, che manifestano accanto a Léon Blum, La vie est a nous, così la canzone delle certezze proletarie, titolo anche di un film di Jean Renoir, lo stesso regista molti anni dopo ci farà dono di Per il re, per la patria e per Susanna, il tempo di Luigi XIII trasfigurato in una slapstick-comedy alla Charlot… Anche in Italia, terminata la guerra, sconfitto il fascismo, avremo un fronte. In Sicilia si chiamerà Blocco del popolo, l’effigie di Garibaldi come simbolo. Ancora adesso, tra la Kalsa e via Antonio Furitano, dov’era un tempo il Cinema “Eden”, c’è modo di trovarne, sopravvissuti, vernice vermiglia, resistenti sulle facciate alle piogge acide e alle ritinteggiature condominiali. In verità, nel nostro caso, la prima immagine che porta a ritrovare memoria del Blocco mostra un manifesto, un poster, un quadro, il “Quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo, immancabile nelle sezioni del Partito socialista italiano e perfino nei patronati, nei Caf dove richiedere il conteggio degli arretrati, un poster che nel tempo ha perfino visto i volti dell’iniziale “canaglia pezzente”, come descritta nei canti anarchici, sostituita dai nuovi professionisti, gli illusi che immaginavano eterno il tempo degli yuppies, mai più un nuovo crac di Wall Street, in attesa dei giorni non meno tribolati della Lehman Brothers, la fine delle certezze neo-post-capitalistiche.
A Parigi, in place de la Rèpublique, festeggiano in italiano: “Siamo tutti antifascisti”, un dono alla Meloni fermo-posta internazionale. Nel simbolo del nuovo fronte, accanto al rosso, troviamo una livrea di tutti i colori dello spettro della rivolta civile, qualcuno ha con sé la bandiera palestinese... È la stessa piazza dove nei giorni del covid un corteo improbabile e furente innalzava il ritratto di Coluche, il comico in salopette che immaginò sé stesso all’Eliseo nei primi anni Ottanta, e tricolori dell’Esagono con la croce di Lorena, simbolo che De Gaulle scelse per le forze della Francia Libera insorta contro i nazisti occupanti, l’acronimo Ffi segnato con la vernice sulle loro Citroën “traction avant” alimentate a gas, un’armata, un’orda di ex gauchiste accompagnati da figli e nipotini minori. Diceva Mao, il Grande Timoniere dalla faccia di saponetta anemotiva, un vero criminale, ma a suo modo anche un signore filosoficamente lucido: “Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente”, e di questa grande confusione, baraonda post-ideologica, che tuttavia non rinuncia alle antiche eroiche insegne, è idealmente, concretamente composto il sentimento del Nuovo Fronte. Per comprendere ciò che infine sarà, sia pure nel gomitolo inestricabile delle cose politiche future, occorre fare ritorno a Giovan Battista Piranesi, osservare i bassorilievi che adornano piazza dei Cavalieri di Malta, Roma, Aventino, dove ogni simbolo corrisponde all’entropia, cominciando dalla torre sbilenca, come già nei versi di Gérard de Nerval: “Je suis le ténébreux, – le veuf, – l’inconsolé, Le prince d’Aquitaine à la tour abolie: Ma seule étoile est morte, – et mon luth constellé Porte le soleil noir de la Mélancolie”. Nel futuro Fronte popolare italiano, inevitabilmente, troveremo perfino chi condivide che gli scrittori siano vestiti da Dior al Premio Strega, come già Michela Murgia, scrittrice con postura da “badessa” che sta all'amichettismo letterario femminista come santa Maria Goretti sta alla Chiesa cattolica. Forse perfino i nostalgici delle guerre alle scie chimiche e ai rettiliani, chissà che non accada di scorgere pure quel signore vestito da D'Artagnan, con tanto di piumaggio e spada, visto al Circo Massimo, grillino, venuto a onorare Giuseppe Conte, l’avvocato devoto di padre Pio giunto da San Giovanni Rotondo, dove c’è perfino una via intestata a Carlo Campanini, l’attore che accoglieva Walter Chiari nei panni dei fratelli De Rege con un “vieni avanti cretino”. L'arrivo del D’Artagnan porrà seriamente la questione della coabitazione politica condominiale, inevitabile, soprattutto se tra anime diverse. Michel Houellebecq, con la sua prevedibile enfasi, che da noi trova un corrispettivo solo nel narcisista Massimo Cacciari, ha commentato il risultato: “Sdentati, miserabili... Le élite al potere disprezzano il popolo non solo in Francia”. Potrebbe riferirsi a Macron o piuttosto celinianamente alla natura umana tutta o semmai residenziale degli arrondissement, dal Marais a Ménilmontant, senza dimenticare tuttavia la Provenza con il suo sciovinismo razzista tra cicale e lavanda, ma forse in questo suo nuovo gomitolo di rabbia su Houellebecq pesa ancora la morte dell’amato corgi Clément (2000-2011), raccontava Fernando Arrabal che l'uomo non si è mai rassegnato alla morte del cane, che riposa adesso nel cimitero degli animali di Asnières, lo stesso dove ha luogo la tomba di Rin Tin Tin, sempre lì Pierre Prévert girò alcune scene dei “Compagni di Baal”, un capolavoro del cinema televisivo tra noir e complottismo, e sebbene queste possano sembrare un paradosso, una digressione, un fuori sacco, perfino il racconto dei peluche di Clément che adesso lo scrittore tiene in casa come reliquie sotto teca servono a compendiare il grande punto interrogativo di ciò che infine sarà, tuttavia, come recita Pier Paolo Pasolini commentando in versi l’arrivo del governo di centrosinistra nel 1964, tra il disincanto dei partigiani, “... eppure questo è un giorno di vittoria”.