Le indagini su Daniela Santanchè proseguono, e ogni dettaglio che si aggiunge alla storia sposta l'ago della bilancia sempre più verso il basso. Non solo a livello penale, ma anche a proposito di immagine. Fino a poco tempo fa, il nome della ministra del turismo evocava l'atmosfera rilassata e festaiola dei party in spiaggia, di Flavio Briatore, della dolce vita; adesso, a sentirla nominare, perfino i suoi compagni e colleghi di partito posano il mojito e lo spray abbronzante sotto l'ombrellone e infilano la testa sotto la sabbia, come fanno gli struzzi. L'ultima novità riguarda la compravendita lampo di una villa a Forte dei Marmi, in Versilia, capitale del Briatoristan. L'immobile, che fu di proprietà del sociologo Francesco Alberoni, mancato nell'agosto del 2023, è stato oggetto di una pratica finanziaria a dir poco strana, che ha attirato l'attenzione della Guardia di Finanza. Una villa da 350 metri quadrati, sviluppata su tre piani, con giardino e piscina, a nemmeno un chilometro di distanza dal Twiga, vera e propria residenza estiva di Daniela Santanché, che ne è stata socia fino a quando non vendette le sue azioni al compagno Kunz e all'amico e socio Flavio Briatore. Il villino fu acquistato a gennaio del 2023 dal principe Dimitri Kunz d'Asburgo, il compagno di Daniele Santanchè, e da Laura de Cicco, la moglie del presidente del Senato Ignazio La Russa, al prezzo di 2,45 milioni di euro. Lo stesso immobile a quanto viene riportato sarebbe stato rivenduto, dopo nemmeno un'ora, 58 minuti per l'esattezza, all'imprenditore edilizio Antonio Rapisarda, per la cifra di 3,45 milioni di euro. Un milione di guadagno in nemmeno un'ora, cose che noi comuni mortali non riusciremmo a fare nemmeno giocando la partita della vita al Monopoli. Daniela Santanchè, però, sta pescando troppe carte degli imprevisti, e ogni lancio dei dadi la porta sulla casella dei gendarmi, rischiando non tanto di saltare un turno di gioco, ma di perdere il posto al Ministero, senza nemmeno passare dal via. Dagli alberghi di lusso in Parco della Vittoria alle stamberghe di Vicolo Stretto.
La magistratura indaga, le elezioni si avvicinano, le posizioni si aggravano. L'opposizione fa il suo lavoro, è palese, e se il Fatto Quotidiano ha lanciato da tempo anche una petizione per chiedere le dimissioni di Daniela Santanchè , adesso nemmeno i suoi compagni di partito possono più difenderla, a quanto pare. Ci sarebbe già stata una telefonata, a questo proposito, tra la ministra del turismo e la presidente Giorgia Meloni, e anche se non se ne conoscono a pieno i dettagli, c'è l'ipotesi che abbiano concordato di aspettare l'esito del rinvio a giudizio per truffa, e che in caso di eventuale condanna scattino le dimissioni immediate. L'accusa riguarda una presunta truffa ai danni dell'Inps, a proposito di una gestione irregolare dei fondi erogati dallo Stato per la cassa integrazione straordinaria, in periodo di pandemia Covid. Si parla di oltre 126mila euro versati dall'ente di previdenza sociale. Tutto sarebbe partito dall'intercettazione di una telefonata fatta da Federica Bottiglione, manager di Visibilia, a Dimitri Kunz d'Asburgo, anche lui facente parte della società di famiglia. In poche parole, senza tecnicismi da tribunale, secondo la magistratura l'azienda incassava i soldi della cassa integrazione mentre i dipendenti continuavano a lavorare. Nel corso della telefonata intercettata, Bottiglione a quanto risulta rimproverava proprio questo a Kunz, dicendogli testualmente che era una gestione da "scappati di casa".
«Perdonami l’offesa, ma è questo. Io… nella mia vita pago anche il biglietto dell’autobus, pago le tasse e sono pure contenta… mi sono ritrovata in una situazione che non mi appartiene per fare un favore a voi e perché mi sono fidata di voi a non controllare le buste paga. Il giorno che l’ho scoperto ho mandato una Pec, è successo il putiferio. Ma io dovevo essere una iena», continuava la telefonata di Federica Bottiglione a Dimitri Kunz, sottolineando la questione che, all'epoca dei fatti, i dipendenti non sapevano di essere stati messi in cassa integrazione. Una volta accortasi della situazione, la dipendente lamentò a Kunz che non voleva grane. Dalle intercettazioni emerse quindi che Kunz avrebbe risposto a Bottiglione che "L’unico modo per essere a posto è non fare casino [...] perché se fai casino, fai un macello [...] se ti autodenunci e poi dopo anche l’azienda, anche noi dobbiamo difenderci. Cioè, poi dopo ci mettiamo l’uno contro l’altro in maniera sbagliata [...] Te ti sei messa in regola eh … però magari hai messo in difficoltà l’azienda, cosa che invece bastava ne parlassi con noi". Insomma, Kunz avrebbe preferito insabbiare tutto, come se fossero stati in spiaggia al Twiga. Il modus operandi venne però confermato anche da un altro dipendente di Visibilia, Francesco Maggioni. Anche secondo lui, Kunz sapeva benissimo ciò che stava succedendo. E parlando di cassa Covid c'è un altro problema ancora, venuto fuori in questi giorni, e che riguarda un'altra azienda che fa riferimento a Santanchè, la Ki Group, già al centro di altri scandali relativi alla gestione fallimentare, di cui abbiamo parlato non molto tempo fa. L'ex agente di Ki Group, Stefano Banzi, ha fatto causa alla società per la quale lavorava. Come ha riportato il Fatto Quotidiano, Ki Group avrebbe ricevuto un prestito statale, durante la pandemia, da Invitalia, benché l'azienda fosse già praticamente fallita. Santanchè in realtà afferma di non aver mai gestito la società, ma Banzi ribatte che "Finché ci sono stato io lei era presidente del cda e finché c’era un amministratore non presenziava direttamente alle riunioni con noi. Nelle ultime invece, al tempo del Covid, lei non solo era presente ma ci dava personalmente le direttive e ci spingeva a vendere. A noi però ci veniva da ridere: se non hai la merce perché non paghi i fornitori cosa diavolo vendi? [...] In realtà la società aveva chiuso i rubinetti molto prima del Covid per i quali ha chiesto e ottenuto quegli aiuti pubblici [...] Lei ha chiesto aiuti ma il fatturato era calato perché non pagando i fornitori non ci mandavano la merce. A me capitava di avere ordini per 500 euro ma mandarne al cliente per 20 proprio perché in magazzino non c’era altro. La cosa ridicola è che quello sarebbe stato il momento più propizio per alzare il fatturato: pur di non fare la fila nella grande distribuzione, la gente andava a fare la spesa anche nei piccoli negozi bio dove non andava prima. Eravamo pieni di richieste, se solo avessimo avuto la merce. Ma io l’ho sentita con le mie orecchie dire che avrebbe chiesto gli aiuti pubblici perché l’azienda ne aveva bisogno. L’azienda aveva solo bisogno di una dirigenza che non la spolpasse per esigenze personali". La partita a Monopoli si fa sempre più difficile. Nel frattempo, nessuno si azzarda a difendere pubblicamente Daniela Santanchè.