La morte di Giulia Cecchettin, per mano di Filippo Turetta, assassino femminicida, mi ha molto colpito. Mi colpiscono sempre i fatti di cronaca nera, credo, i femminicidi in particolare, ma questo più degli altri. Mentirei dicessi il contrario. E probabilmente mentireste anche voi. Mi ha colpito sicuramente per il viso di Giulia, quel sorriso solare, la faccia innocente, quasi fanciullesco. Mi ha colpito per quella concomitanza della sua sparizione, prima, della sua morte e del suo ritrovamento, poi, con il giorno nel quale avrebbe dovuto festeggiare la laurea. Mi ha colpito anche per la faccia “normale” del suo assassino. Mi sta colpendo anche tutto quello che si sta dicendo, spesso grossolanamente, intorno a questa tragedia. Se siete tra quanti mi leggono abitualmente saprete che non scrivo mai entrando direttamente nel cuore del discorso. Non è un vezzo, è semmai una modalità, uno stile. Mi piace accompagnare il lettore a spasso, introducendo gli argomenti di cui voglio parlare un po’ alla volta, spesso lasciando alle ultime righe dei miei pezzi, quasi sempre lunghi, lunghissimi per gli standard della rete, il tema vero e proprio, quello che in genere poi finisce dentro il titolo. Tema e titolo che spesso rovinano, si fa per dire, questo mio andare a zonzo, perché ovviamente se in un titolo c’è scritto che parlerò di Vasco Rossi, sarà ben difficile che nel mio tortuoso discorso per arrivarci voi non sappiate già che tutto quel che dico è a Vasco Rossi che porterà. Stavolta, mi sono detto, non devo seguire questa modalità. Non posso. Non per una logica Seo, mi spiace a volte per i magazine per cui scrivo, ma poco ho interesse a queste faccende, che peraltro spesso vengono comunque tenute in conto con i cappelli ai miei pezzi, quelle righe in grassetto che riassumono il tutto e che trovate tra titolo e testo. Non posso perché il tema è doloroso, e mi trovo in oggettiva difficoltà a girarci intorno con apparente, perché di apparenza si tratta, sempre, svagatezza. Ho quindi iniziato partendo di lì. Poi, certo, ho iniziato a prenderla larga, ma ora torno lì, prometto.
Ho quattro figli, due ragazze e due ragazzi. Lucia, ventidue anni, la medesima età di Giulia, già la potreste aver conosciuta, perché qui si occupa di scrivere con me le pagelle di X Factor e perché con me ha fatto per MOW le interviste ai cantanti a Sanremo. Lei frequenta l’ultimo anno di Lettere alla Statale e il primo anno all’Accademia di Brera, in fotografia. Tommaso, diciotto anni, sta facendo l’ultimo anno del Liceo Scientifico, scienze applicate. Francesco e Chiara, dodici anni, gemelli, frequentano la seconda media. Due maschi e due femmine, adolescenti o comunque giovanissimi. Come potrebbe non colpirmi come un pugno in un occhio questa vicenda? In questi giorni, quindi, come molti, immagino quasi tutti, ho passato ore a leggere articoli, approfondimenti, commenti, per cercare di farmi una idea. Non tanto di come siano andate le cose, quel che si può sapere, a oggi, la sappiamo già, né di cosa si sarebbe potuto fare per impedire questo ennesimo femminicidio. Anche su questo si è detto molto, e lo si è detto in realtà da tempo, rimandando indietro di un paio di giorni, tanti ne passano in genere tra un femminicidio e l’altro, le mancanze che ci sono a livello sociale a questo riguardo, dall’assenza di una legislazione precisa all’altrettanto mancante applicazione delle leggi vigenti, quella percezione di impunità che in genere da noi accompagna qualsiasi tipo di violazione della legge, dal parcheggiare in doppia fila all’evadere le tasse. In questo caso, ma so già che al prossimo “argomento del giorno”, quando cioè passeremo a occuparci tutto d’altro, la questione passerà nuovamente in secondo piano (qualcuno di voi si ricorda come si chiamava la ragazza incinta uccisa dal suo compagno che nel mentre aveva una relazione con un’altra donna di cui abbiamo parlato tutti per qualche giorno tempo fa?), la faccenda diventerà meno stringente; in questo caso si è anche molto tornato a parlare, sì, tornato, della necessità di una educazione sentimentale dei nostri ragazzi, maschi e femmine, a partire dalle scuole passando per le famiglie.
Perché la contezza che si tratti di una questione che riguarda tutta la società è evidente e chiarissima. Si è parlato, a ragione, di una impreparazione al fallimento, parlo del maschio, indicandone frettolosamente, non perché sia un bersaglio sbagliato ma perché ovviamente queste discussioni per loro natura non possono che essere spicce, la causa in una società troppo performativa, che per di più spinge l’uomo, inteso come maschio, non come mero essere umano, a ritenersi titolare di diritti e privilegi che non dovrebbe avere (ma che nei fatti ha). Abbiamo sentito tutti, col cuore stretto in una morsa sanguinante, la voce di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, provare a indicare in un costrutto sociale, ormai calcificato, le responsabilità più alte di un crimine che ovviamente ha un colpevole, ma che ha dei complici. Un discorso che, non poteva che essere così, ha urticato molti, specie i tanti che ne sono partecipi in maniera più attiva, come del resto aveva urticato a suo tempo sentire le parole di Michela Murgia paragonare il maschio che non ha mai esercitato direttamente discriminazioni verso una femmina al figlio di un mafioso che abbia disconosciuto la figura del padre, certo non colpevole volontariamente, ma comunque privilegiato in quanto percepito socialmente come tale. Urticamento che ha portato alle solite imbarazzanti reazioni scomposte da parte di chi, anche in un momento doloroso come questo, non è riuscito per una volta a dimostrarsi non dico umano, ma neanche vagamente sensibili, né intelligente. La faccia normale di Filippo Turetta, quel non essere un mostro, come indicato proprio da Elena, che lo ha definito il figlio sano del patriarcato, portando addirittura qualche demente a tirare fuori le foto di Anna Maria Franzoni, per allestire un mestissimo teatrino che contrapponeva a quel “tutti gli uomini devono chiedere scusa” un improbabile “tutte le donne devono chiedere scusa”.
Il senso della misura evidentemente perso per strada da tempo, a rendere il tutto più inquietante, come non bastasse già il peso sul cuore di sapere che quella famiglia solo un anno fa aveva vissuto la tragedia della perdita della mamma di Giulia, l’idea che un mio coetaneo, quasi, possa aver subito due colpi tremendi come questi nel giro di pochi mesi, giuro, mi ha tolto letteralmente il sonno. Ma non è di questo che voglio parlare, i titoli stanno appunto lì per indicare dove andrò a parare, anche stavolta. Ho letto, come molti, le parole di Cristiana Capotondi riguardo i testi della musica trap. Un discorso, ovviamente, estrapolato dal contesto, come usa oggi, che indica in quei testi così amorali e violenti, pieni di sesso spinto, droghe, oggettificazione della donna, inni alla violenza e più in generale a una visione assolutamente distorta dei rapporti interpersonali, una parte delle responsabilità della china che la nostra società ha preso. Un discorso che è stato fatto anche in questo magazine, da tempo, e che ovviamente ha trovato pronta risposta in quanti da tempo stigmatizzano quel genere musicale, così come il porno o i videogames, tutti violenti e con quella medesima visione del mondo, a uso e consumo dei più giovani. Mi occupo di musica, di quella parlo e di quella parlerò. A casa mia la trap non è arrivata. Non direttamente, almeno. Non per una questione di censure, premetto, ma perché immagino che ascoltare in genere altra musica (in casa coi miei figli ci viviamo anche noi genitori, e io sono un genitore sicuramente anomalo, in questo, ascolto musica per lavoro tutto il giorno o quasi), avrà indubbiamente avuto un peso sul gusto personale dei miei quattro figli. In caso ci fosse entrata, so bene che i compagni di scuola di alcuni dei miei figli ascoltano trap, rap e più in generale la musica che gira adesso, mi sarei sicuramente soffermato a ragionare con loro su quelle canzoni, come mi è capitato in passato di fare sulla musica indie, che per qualche tempo è stata la base degli ascolti di mia figlia Lucia, la maggiore.
Avrei parlato anche dei testi, e ci mancherebbe altro, ma credo, lo credo fortemente, lo affermo con risolutezza, che indicare nei testi delle canzoni trap una parte, anche impercettibile di responsabilità di un femminicidio, quello di Giulia Cecchettin nello specifico, qualsiasi femminicidio in generale, sia un grandissimo errore. Avevo inizialmente scritto “emerita cazzata”, faccio una sorta di edit del pezzo che state leggendo, ma avrei in qualche modo mandato in caciara un pezzo che invece intendo come serissimo, quindi ho corretto, anche se il senso credo sia il medesimo, solo espresso in termini e stili differenti. Credo che sia un grandissimo errore perché non si ha contezza che Filippo Turetta, è lui l’assassino, anche in assenza di giudizio di un tribunale, non sembra, a occhio, uno che ascolta musica trap, ma non lo è per un motivo che credo sia decisamente più generico: l’arte non deve e non può sottostare alle medesime regole che ci impone l’etica e la morale. Non è una mia opinione, questa, intendiamoci, non sono un trappettaro che rivendica la necessità di una musica che racconti, questo sostengono a propria giustificazione i trapper o chi li ascolta, la vita di strada, come una sorta di cronaca in rima di una porzione di società altrimenti non percepita da chi non la vive. Non ascolto trap, quello che ascolto mi fa musicalmente quasi sempre orrore, trovo i testi mal scritti, e penso che quella della cronaca sia nella stragrande maggioranza dei casi una idiozia, una idiozia messa lì per difendersi da accuse che a loro volta sono idiozie, come lo erano le accuse a Eminem, ai tempi in cui il rap ha sfondato in Italia le barriere che dividevano un genere di nicchia dal mainstream, Fabri Fibra a seguirlo, o Marilyn Manson, accusato di essere responsabile della strage di Columbine (dove un ragazzino suo fan ha ucciso quindici studenti in un istituto, comprando ovviamente senza alcuna difficoltà le armi, come d’uso negli Usa) e più in generale certa musica rock.
Ma il discorso si potrebbe estendere alle serie come Gomorra, un discorso a parte forse riguarda i neomelodici, la cui musica è in effetti strettamente legata alle mafie. L’arte non deve seguire la morale, è arte. Deve indicare il bello e il bene, o sublimare il male. Non deve educarci. Lo può ovviamente fare, veicolare messaggi è parte della missione di parte degli artisti, anche nel momento in cui usino le proprie opere per provocare, aprire ferite invece di provare a curarle, ma non è all’arte che dobbiamo chiedere di educarci e tantomeno di educare i nostri figli, intendendo con “nostri figli” i giovani, includendo d’ufficio in questo discorso anche chi figli non ne ha. Questo è un discorso che riguarda gli artisti, ovviamente, un artista può essere una persona orribile, citerò il classico Caravaggio: era un assassino, uno per tutti, ma un artista sublime. Caravaggio ci ha mostrato ombre che il suo essere assassino probabilmente includeva d’ufficio, così come una persona stupenda. L’arte si esprime con le opere, non con la biografia di chi le fa. Quindi questo è un discorso che riguarda le opere. Lolita è uno dei capisaldi della letteratura del Novecento, pur raccontando una storia di pedofilia, un’opera quindi disturbante, anche per quella capacità che ha Nabokov di farci entrare in una trama che, razionalmente, dovremmo rigettare. Anche qui ho usato un esempio per tutti. Infilare le mutande alle statue, per non mostrare le cosiddette pudenda, è opera che ha fatto il fascismo. Non sto indicando nelle destre alcuna posizione particolare a riguardo, fermi tutti, e oggi ne ridiamo come si fa con chi ha compiuto un gesto sciocco (coprivano pudenda e facevano le leggi razziali, per dire, la morale la si dovrebbe applicare dove serve). Non voglio ovviamente dire che le canzoni trap siano d’ufficio arte, credo, e lo credo fermamente, che nella stragrande maggioranza dei casi non lo sia neanche per sbaglio, sia al massimo intrattenimento, e anche intrattenimento vacuo, ma è un principio che mi spinge a dire che non è nella trap o nei film e le serie tv parte della responsabilità della china che la nostra società ha preso. Mi sembra una comoda scorciatoia, comodissima. La colpa è di Niky Savage, daje.
In realtà sono perfettamente d’accordo con Elena Cecchettin, la colpa è del patriarcato, e in quanto uomo, in quanto uomo che non ha mai fatto catcalling, che si impegna a non discriminare, anzi, parte del mio lavoro di critico musicale è da sempre dedicato a provare a scardinare delle consuetudini che tengono le artiste a margine del sistema. Uomo che prova, spero con successo, a non abusare mai di quella posizione di privilegio, ho comunque usufruito del tutto e ne sono a mia volta colpevole. In buona compagnia con tutti, il che non rende questa mia colpa meno colpa. Ma credo, proprio per questo, che sia quello il tema su cui dovremmo ragionare e muoverci. Certo, educare i nostri figli, i maschi in primis, ma dovremmo fare un discorso più complesso, come famiglie, come scuola, più in generale come società. Se i ragazzini ascoltano Niky Savage, indico lui pur non conoscendolo, i miei figli Lucia e Tommaso mi hanno detto che fa musica deprecabile con testi orrendi, forse anche per questo in casa non si ascolta trap. Se i ragazzini ascoltano Niky Savage, quindi, prendo lui come esempio, ma in casa hanno un preciso modello educativo, e così a scuola, credo che Niky Savage possa diventare mera colonna sonora, e forse neanche lo diventerebbe. Non penso che ci sia un solo ragazzino, a Napoli come ovunque, che abbia deciso di affiliarsi alla camorra perché ha visto Gomorra. Non penso che ci sia una sola persona che abbia deciso di considerare una donna “una fi*a da sco*are” perché lo ha detto Niky Savage, sempre che questo dica. Magari lo avrà fatto anche per quello, ma il modello che gli ha dato l’imprinting è a casa, poi a scuola, nelle frequentazioni che ha. Delegare a Niky Savage l’educazione è sciocco. Come diceva Vasco, artista col quale ho lavorato a lungo e che è passato, negli anni, da essere il cattivo maestro all’essere una sorta di Dio che dispensa a ragione messaggi di speranza, quel “ce la farete tutti” con cui da tempo chiude i suoi concerti è emblematico in questo, lui che cantava “siamo noi, quelli che poi muoiono presto, quelli che però è lo stesso”.
Ecco, come diceva Vasco quando gli imputavano di essere o di essere stato un cattivo maestro, “io non sono proprio un maestro”, rimandando al mittente le accuse di spingere i suoi fan verso una vita spericolata. Ma davvero pensate che le canzoni, per dire, di Marylin Manson, con quell’immaginario violento che alcune accuse ci hanno poi fatto supporre (i processi non si sono conclusi), siano anche parte del suo vissuto, abbia indotto di suo qualcuno a emularlo? Cioè, è pensabile che qualcuno diventi un maranza perché ascolta Baby Gang? Non c’è intorno una famiglia, una scuola, una cerchia di conoscenze e amicizie che influisce in questo? Ovviamente dire, “in alcuni casi no”, non sposta le responsabilità su Baby Gang, ma su quelle assenze, e sul fatto che chi dovrebbe metterci una pezza, la società, quindi la scuola, lo Stato, non lo faccia. Una colonna sonora è appunto una colonna sonora, non il copione che qualcuno deve seguire a memoria. A me spaventa il fatto che si indichi nell’arte una responsabilità che l’arte di suo non deve avere, altrimenti avremmo solo musiche, libri e film, quadri e statue edificanti, rasserenanti, pacificatorie, esattamente il contrario, per dire, di quello che io in genere cerco nell’arte: il turbamento, il fastidio, tutto ciò che mi faccia sublimare ciò che imputo come Male. Perché poi, attenzione, niente Wagner, niente Bukowksi, niente Kubrick, niente Goya o Bosch, niente Lou Reed. Niente di niente. Ma mi spaventa soprattutto perché vedo in questa ennesima levata di scudi un lavarsi le mani rispetto a quanto non si sta facendo altrove, a livello strutturale, ma anche a livello personale. Spiegare ai nostri figli, sono sempre generico, che quel che ascoltano o vedono è arte, che l’arte non deve necessariamente essere edificante, ma che in quel disagio e turbamento che a volte ci provoca c’è la volontà dell’artista di farci riflettere, di metterci anche a nudo rispetto a noi stessi. Arte, appunto, non una lezione di educazione civica da seguire. È la base da cui partire, ma credo sia normale averlo fatto o farlo senza bisogno di pensare a un femminicidio. Non è che se guardo coi miei figli un film horror devo specificare che non è il caso di diventare un serial killer, è un’opera, idem se ascoltano Niky Savage (giuro che non so chi sia, ma tant’è).
Per altro, visto questo amore per la cronaca, quando negli Usa, per mano di Tipper Gore, moglie del vicepresidente democratico Al Gore, si è introdotta la categoria “Parental Advisory Explicit Lyrics” per stigmatizzare i testi contenuti in certi dischi il tutto ha sortito effetti esattamente opposti, causando un aumento delle vendite, e una ricerca spasmodica del proibito da parte dei giovanissimi, attratti dall’idea di avere per le mani qualcosa che si diceva non dovessero avere. Il tutto riguardava ovviamente soprattutto rap, era il periodo del gangasta rap alla N.W.A e Ice-T, per capire, anni Novanta, il disco dei 2 Live Crew, As Nasty As They Wanna Be, del 1989, seguito dal mitico Banned in the Usa, a fare da detonatore, l’iniziativa era partita circa quattro anni prima, ma anche il Metal e un po’ tutti i generi considerati a torto non mainstream. La storia dell’intrattenimento, ma anche della cultura, è piena di oggetti proibiti che proprio in quanto tali diventano ricercati, pensate appunto a Bukowski, o Henry Miller o Jean Genet o chiunque non rientrasse nei canoni vigenti al momento in cui operava e che comunque rappresentava un’idea diversa da quella imperante, messo al bando e proiettato a futura memoria. Della serie, ottenere il risultato opposto a quello che si perseguiva. Non dovremmo quindi guardare alla musica trap come a responsabile di questo disastro che stiamo vivendo. Non lo è. Semmai dovremmo porci nelle condizioni di educare i giovani a capire che ascoltare musica che veicola testi che inneggino al possesso, che neghino l’idea di fallimento, che guardino alla donna o più in generale al proprio partner, fisso o momentaneo, come a qualcosa più che a una persona, è avvilente. Tanto più se è avvilente anche la musica che quelle parole accompagna. Non possiamo demandare agli artisti, tanto meno ai non artisti, il compito che in realtà spetta a noi adulti, famiglia, scuola, società. Ovvio che parlare di possesso riguardo un partner, usare certe determinate parole per indicare la donna, quindi inneggiare allo stupro, a un sesso che è figlio di una pornografia violenta, parlare con leggerezza di armi o droghe non sia indicare esempi da seguire. La trap continua a farmi orrore, ma sta a noi dare gli esempi giusti, spiegando con il nostro modello e anche coi ragionamenti in cosa quelle parole e quelle “immagini” siano sbagliate. Sempre e comunque idee e immagini contenute in una canzone, non certo in un depliant su come affrontare la vita. L’educazione sentimentale di cui si sta giustamente parlando in questi giorni è il vero punto, oltre che un discorso più ampio su come una sorta di analfabetismo sentimentale e anche generico, ci stia facendo regredire a un passato che speravamo, appunto, superato. Sta a noi prenderci le nostre responsabilità, non a Niky Savage.