Bravi. Bravi tutti. Da quando l'ordinanza del tribunale di Milano è arrivata sui loro cellulari (e su quelli di soggetti che nulla hanno a che fare né con la magistratura né con i media, ma questo è un altro discorso) tutti i giornalisti hanno cominciato a pubblicare articoli raccontando i dettagli dell'inchiesta sulle curve di Milano. Nelle 600 pagine redatte dalla Procura ci sono intercettazioni, valutazioni e contenuti che ogni giorno riempiono i quotidiani: si è parlato della sudditanza delle società nei confronti degli ultras, dei tentativi della ‘ndrangheta di infiltrarsi nel business dei parcheggi, dei biglietti e del merchandising, si è evinto il metodo minatorio e mafioso di alcuni soggetti, è emerso con ancora più forza il legame tra criminalità e alcuni rapper finti pugili o palestrati, si è capito meglio insomma quello che però, a chi frequentava certi ambienti, era chiaro da sempre. Come mi ha confidato un ex arbitro al bancone di un bar di provincia: “Sapevamo più o meno già tutto. Nell'ambiente i nomi si conoscevano. I capi ultras danno e i capi ultras in cambio chiedono”. Già, per quanto l'ordinanza sia rivelatoria di comportamenti, linguaggi e relazioni quello che è molto, molto più interessante e più difficile da sapere è ciò che sta succedendo adesso nel sottobosco della criminalità milanese e tra le famiglie calabresi, dopo l'omicidio di un rampollo dell'ndrangheta, Antonio Bellocco, ammazzato con 21 coltellate il 4 settembre da Andrea Beretta, ex capo ultrà della curva nord dell'Inter. Perché senza questo omicidio (il terzo in pochi anni nel giro della curva, di cui uno ancora irrisolto, quello di Vittorio Boiocchi) l'accelerazione dell'inchiesta non ci sarebbe stata.
Eppure la Digos già nel 2020 aveva chiesto provvedimenti per molti di quelli che in carcere ci sono finiti solo adesso. Le intercettazioni erano state autorizzate dal giudice per le indagini preliminari Guido Salvini, ed è stato proprio lui in un articolo su Il Foglio a scrivere: “Tutti lo sapevano, nessuno si è mosso”. La Procura di Milano e Milano sono un caso a parte, come dice il giornalista esperto di tifo David Gramiccioli (in questa intervista) e come ha detto anche il super procuratore Nicola Gratteri. E la domanda che tutti si fanno è: perché nelle carte del Tribunale ancora oggi non si parla di droga e l'ndrangheta è ancora molto laterale? Come è possibile? Per capirlo bisogna fare un lavoro sporco, terra terra: di relazioni con confidenti della curva e con chi lavora sulla strada e fa la spola con il carcere. Tra questi quasi tutti evitano di parlare nella speranza che “si calmino le acque”, ma è sempre la solita scusa. La verità è che hanno paura. Il mondo ultras è un mondo chiuso. Si conoscono e si controllano tra di loro. Infine, le acque non si calmeranno per niente. Anzi, tra poco si agiteranno ancora di più. In data 12 e 20 settembre abbiamo pubblicato due articoli che hanno anticipato ciò che poi gli atti dell'indagine del pm Paolo Storari hanno confermato: legami tra ‘ndrangheta, colletti bianchi e criminali di strada. Mondo di sotto, di sopra e di mezzo.
E ora? Partiamo proprio da Beretta. L'incontro con un suo (ex) fedelissimo slitta continuamente, poi il giorno giusto cambia la location tre volte, sempre all'ultimo momento. Alla fine ci troviamo davanti a un motel a ore e guidiamo senza direzione. Il tipo è un tifoso vero, cresciuto in curva, si presenta con un bigliettino. È il tagliando attaccato ai materiali del merchandising griffati Curva Nord. Me lo passa. Leggi, mi fa. C'è scritto, tutto in maiuscolo: “Avere un prodotto Curva Nord Milano significa appartenenza e sostegno concreto di un progetto e di una fede. Indossare questo articolo significa sposare ed incarnare il simbolo che rappresenta”. Sorrido: appartenenza a chi, chiedo. “Capisci? L'Inter non si tocca. La curva è la mia vita. Parlo perché posso pure concepire che alcuni di noi fanno lavori anche per famiglie, recupero crediti, pestaggi, spaccio, ma la mafia in curva non deve comandare. Se no cosa diventa il tifo, una scusa, un business sulla nostra pelle?”. È una questione di purezza. Adesso in curva Nord la situazione sembra essersi ristabilita in favore di questi valori. A lanciare i cori c'è Christian Lembo, un ruolo sempre maggiore se lo sta ritagliando Manuel Menny Filipponi e poi c'è sempre Nino Ciccarelli. Sono ultrà. Il motto è: la maglia prima di tutto. Nel comunicato diramato ieri la presa di distanza rispetto al recente passato è netta: si torna ai vecchi striscioni e ai vecchi gruppi come i Boys e i Vikings; si tagliano i rapporti con la società per i biglietti e si rinnega il gruppo direttivo che faceva affari con personaggi esterni alla curva. Una comunicazione molto diversa rispetto agli ultimi due comunicati precedenti che parlavano di “tragici avvenimenti” e che francamente facevano ridere perché sostenevano l'importanza di tornare al vero tifo ma non prendevano alcuna distanza netta dalla ‘ndrangheta. Il motivo era semplice: il direttivo non poteva. Già a Manchester per la partita di Champions Maurino (Mauro Nepi, arrestato) stava in disparte, pensieroso. E alla fine del derby, qualche giorno dopo, fuori dallo stadio c'è stata una rissa con uno della vecchia guardia che ha urlato: “Dobbiamo smetterla perché qua sta uscendo fuori tutto”. E poi a capo del direttivo, anche se non ufficialmente, c'era comunque Marco Ferdico, la faccia dei Bellocco, ora in carcere. Il nemico numero uno di Andrea Beretta. È sempre la nostra fonte a parlare: “Andrea dopo l'omicidio era agitato, non si dava pace, quando ha visto il suo avvocato continuava a ripetere: mi sono solo difeso, mi sono solo difeso. Posso concepire il tradimento, ma addirittura uno come Marco che ha progettato il mio omicidio, caz*o no”.
Beretta lo sapeva che doveva essere ammazzato, è risaputo. Quello che non è ancora stato comunicato è ciò che è successo dentro la Smart e subito dopo le coltellate. Prima di tutto (questa e altre notizie esclusive andranno in onda nella puntata de Lo Stato delle cose di Massimo Giletti, su Rai Tre), lo stub ha dato il risultato definitivo: a sparare per primo è stato effettivamente Antonio Bellocco. Quindi Bellocco e Beretta entrano nella Smart. L'omicidio di Beretta non doveva avvenire lì ma in altra sede, c'erano delle ipotesi (tra cui stordirlo e poi sotterrarlo nella calce, come raccontato dal Fatto), ma ancora non era stato deciso ufficialmente né dove né quando. Solo che Beretta affronta Bellocco. E Bellocco, preso alla sprovvista, prende l'arma di Beretta e cerca di sparargli. Beretta però è un picchiatore professionista, un fighter di livello e nell'abitacolo della Smart lo accoltella alla gola. Il pm Storari non era di turno quel giorno, ma si reca fuori dalla palestra di Cernusco lo stesso. Ferdico, che insieme a Bellocco aveva progettato l'omicidio, tradendo il suo mentore Beretta (era stato proprio Beretta a spingerlo per farlo entrare in curva), cerca subito di fare due contromosse. La prima, al baretto di San Siro, covo della Nord, parla male di Beretta, dice che fino al giorno prima si chiamavano “famiglia” e che non poteva aver perso la testa così, facendo intendere che lui non sapeva niente del piano orchestrato per ucciderlo. La seconda, contatta l'avvocato Mirko Perlino. Perlino è un uomo di curva, dei vecchi Boys San, il riferimento legale di molti ultrà, compreso, appunto, quello di Beretta. Ed è proprio Storari a buttargli lì un suggerimento: lascia stare Ferdico, gli fa capire. Incompatibilità. Altra notizia esclusiva: questo non è stato l'unico suggerimento per Perlino, gliene è arrivato anche un altro. Ovvero: esponiti il meno possibile. Perché l'aria che tira è pesantissima. Da giù i Bellocco si vogliono vendicare. E se la famiglia di Beretta è sotto controllo degli agenti e può anche essere trasferita, Perlino no. Oltretutto Perlino non può giocarsi un'altra carta che invece è al vaglio di Marina, la moglie di Beretta, che sta pensando di dissociarsi da Andrea, cioè di rilasciare una dichiarazione in cui dirà che lei con il marito (ex, in realtà) non c'entra più niente e che non ha condiviso né la reazione che lo ha portato all'omicidio né il suo comportamento attuale. Beretta adesso è al settimo raggio di San Vittore, Marina lo va a trovare (al contrario della compagna, che non ha alcun diritto per farlo), quindi è credibile che possa sapere cose che all'esterno non emergono e non approvarle. Da più parti infatti sta venendo fuori che Beretta che si stia pentendo. Non è vero: ma farlo credere non è sbagliato. Non a caso, questa comunicazione è partita proprio il giorno dei primi interrogatori agli arrestati, compreso Ferdico. Perché se Beretta parlasse molti tremerebbero. E poi sarebbe un modo per sostenere con maggiore protezione la famiglia e, perché no, trasferirla. Di vero però c’è che il rapporto tra Storari e Beretta sia migliorato e che Beretta non smetta di pensare a come vendicarsi: “Fosse anche l'ultima cosa che farò, io prima o poi a Ferdico lo ammazzerò con le mie mani. Lo schiaccerò come un verme”. Queste sono le sue quasi testuali parole. Seppur in carcere e in isolamento a Beretta non sono sfuggiti i messaggi via social mandati da Ferdico dopo l'omicidio: Ferdico si è apertamente schierato per la famiglia Bellocco, anche perché temeva di essere individuato come l'infame che aveva avvertito Beretta del piano per ammazzarlo quando in realtà era proprio il contrario. Ferdico insomma per evitare fraintendimenti ha esplicitato la sua appartenenza ai Bellocco, una famiglia ‘ndranghetista, padroni di Rosarno e dei traffici nel porto di Gioia Tauro insieme ai Pesce.
E qui entra la ‘ndrangheta. E tutto si complica. Un confidente ci spiega: “Milano non è l'hinterland. Non puoi arrivarci come è stato fatto in altri comuni, però è stata usata la modalità a spirale: si sono presi i comuni intorno e ora vogliono entrare a Milano nei posti che contano. La ‘ndrangheta, chiaramente, in città c'è già, ma non occupa posti pesanti. A Milano c'è una Procura importante, il Comune non può essere infiltrato facilmente, è anche una questione di marketing, prendersi le curve significa cominciare a prendersi un punto nevralgico, San Siro è un simbolo. Comprendi? Però è significativa una cosa: come mai nessun politico milanese o nazionale con interessi elettorali a Milano ha detto niente?”. Eh, come mai? Farsi le domande giuste porta a risposte scontate: perché l'intreccio tra colletti bianchi e mani sporche non si ferma alla gestione parcheggi né alle accuse rivolte a Manfredi Palmeri, politico di centro destra coinvolto nell'inchiesta. Ma è molto più nascosto e radicato. E secondo qualcuno ben informato è il motivo per cui le famiglie calabresi ancora non si sono mosse per vendicare Totò Bellocco. Qualcosa succederà ma non è ancora il momento. Nessuno vuole altre attenzioni. Non le vogliono gli uomini che si muovono nell'ombra, non le vuole la politica (c'è la questione stadio, altro tema fondamentale: privatizzarli o tenere San Siro), non le vogliono le cosche.
Oltretutto, e questo in pochissimi lo stiamo scrivendo (noi e qualche giornale calabrese), l'atteggiamento di Antonio Bellocco non è piaciuto. Il suo tentativo di prendersi gli affari della curva era chiaro anche in Calabria, ma le modalità non erano state ancora concordate. La cronologia è importante, lo ripetiamo anche in questa terzo articolo: Ciccio Testuni esce dal carcere 26 giorni prima dell'omicidio. Lui e Totò sono legatissimi, scelgono di accelerare, anche perché sapevano che a breve sarebbero arrivate le sentenze di un maxi processo che poi infatti sono arrivate e hanno gambizzato la cosca Bellocco/Pesce, quindi il momento di agire era propizio. Ma poi le cose non sono andate secondo i loro piani. E alcune famiglie si sono infastidite. Non è un caso che nella prima riunione dopo l'omicidio Ferdico, al baretto, abbia parlato dei Flachi e del loro interesse di entrare nel business curva. I Flachi, come sottolinea sempre Klaus Davi, non sono una cosca, appartengono ai De Stefano. Proprio ai Flachi era legatissimo Beretta. Ferdico millantava? O davvero i Flachi si volevano subito insinuare nel momento di debolezza dei Bellocco? O, ipotesi non meno plausibile, la trattativa per un accordo era già cominciata? A gestirla pare essere un uomo per ora ai margini delle cronache dei media. Lo abbiamo già scritto ma ripetiamo anche questo: il suo nome è Domenico Bosa, detto Mimmo Hammer, che si è guadagnato la fiducia della famiglia Pompeo, vicinissimi sempre ai De Stefano. Pompeo, Flachi, De Stefano. Il vice del defunto boss dei Pompeo era Nazareno Calaiò, amico di Beretta, con un soprannome che fa capire il suo credo politico: Naza Nazi. Ed ecco che la tessera del puzzle si incastra. Anche Renato Bosetti, rientrato nel direttivo della Nord dopo l'omicidio di Bellocco e l'arresto di Beretta, pure lui oggi in carcere, arriva da ambienti di estrema destra. E al nostro confidente di quell'ambiente risulta che la trattativa di Mimmo Hammer stava andando avanti in modo efficace. Poi sono arrivati gli arresti ed è entrata in una fase di stallo. E le probabilità che qualcuno decida di agire senza un accordo per vendicare Antonio Bellocco si sono alzate. Ecco perché a Storari è stata data la scorta. Ecco perché la moglie di Beretta sta pensando di dissociarsi. Ecco perché la curva ora deve essere solo una curva che pensa al tifo (per fortuna). Ed ecco perché qualcuno che in questa storia non ci vuole entrare anche se in qualche modo c'entra deve risolvere - e in fretta - alcuni problemi come la questione stadio e i parcheggi. La politica e Milano non possono permettersi danni di immagine. Tra non molto ci saranno le elezioni e le Olimpiadi Milano-Cortina. Bisogna che il clima sia disteso. Altrimenti gli affari si fanno male.