Guardando un film Netflix, più che sulla qualità dell’opera in sé, diventa quasi più interessante chiedersi quali siano le ragioni del suo successo. Havoc è uno di quei casi. C’è Tom Hardy come protagonista e alla regia c’è Gareth Evans, che in carriera ha diretto alcuni episodi di Gangs of London e, soprattutto, i due The Raid (forse ce ne sarà un terzo), film di arti marziali indonesiani celebrati per la qualità delle scene di azione. Anche in Havoc, va detto, si vede che la mano è esperta. Si parte con un monologo in voice over del detective Walker (Hardy, appunto) mentre ci spiega che nella vita facciamo scelte che ci lasciano con niente in mano, solo fantasmi intorno. Al terzo minuto ci siamo tolti il pensiero della “morale della favola”. Divorziato, corrotto, lo vediamo scegliere dei regali a casaccio per sua figlia. È Natale. Poi la scena con l’inseguimento: la polizia cerca di stare dietro a un camion che trasporta qualche quintale di cocaina. I criminali lanciano una lavatrice per seminare le auto e ne colpiscono una: l’agente Cortez rimane gravemente ferito. A scappare dalle forze dell’ordine, in realtà, è Charlie (Justin Cornwell), il figlio del sindaco Lawrence (Forest Whitaker). Subito si scopre che Walker deve un favore a Lawrence, che a palazzo c’è arrivato per vie non del tutto trasparenti, pare: la missione che il primo cittadino affida al detective è di trovare il ragazzo, per evitare che finisca ucciso dalla mafia cantonese che controlla il traffico di stupefacenti della città, e a cui Charlie e la fidanzata Mia (Quelin Sepulveda) hanno sottratto la droga. Ma da solo Walker non può farcela e per questo chiede aiuto a Ellie (Jessie Mei Li), anche lei agente di polizia. Mia e Charlie, aiutati da Raul (Luis Guzmán – peccato vederlo così poco), lo zio della ragazza, che fornisce ai due documenti falsi, provano la fuga dalla città. A cercarli, però, non c’è solo la mafia cinese. Anche i tre poliziotti guidati da Vincent (Timothy Olyphant) li vogliono. In ballo ci sono la coca e l’accordo con il boss Tsui Fong (Jeremy Ang Jones). Una storia di redenzione, più o meno. O meglio: la redenzione è il pretesto per sparare.


I riferimenti del regista li ha chiariti lui stesso in varie interviste: sono i film di arti marziali hard boiled del cinema di Hong Kong. E di azione ce n’è eccome in Havoc. Anche ben fatta. Le tre grosse sequenze in cui tutti sparano contro tutti, infatti, lasceranno soddisfatti gli amanti del genere. Nell’ultima, a dire la verità, alcuni passaggi sono fin troppo inverosibili (mai un proiettile colpisce il nostro Walker). Ma se il metro di paragone sono i film hongkonghesi allora ci sta: in quelli, infatti, l’aspetto surreale è parte dell’estetica. Inutile aspettarsi backstory troppo complesse o guizzi di sceneggiatura. Tutto è propedeutico alle sparatorie. Ma cercando in giro si legge di una certa insoddisfazione per le scelte del direttore della fotografia Matt Flannery. Sembra troppo finta la Gotham/Sin City dove è ambientato il film; troppo approssimativa la Cgi nelle scene in auto. Forse è così. Di sangue ne scorrono litri, i proiettili fanno rumore (più del solito forse?), Tom Hardy è bravo e il film non è eccessivamente lungo, e per questo godibile. Per tutto il resto: con l’Ia pronta a prendere il posto di scenografie e inseguimenti fatti con macchine vere probabilmente ci dovremo abituare a un certo appiattimento. A meno di essere Christopher Nolan, che può contare su budget da capo di Stato. Lo si è visto in Oppenheimer, lo si vedrà nella sua versione dell’Odissea (per una più sobria – Odyssey di Nolan deve ancora uscire ma il progetto sarà mastodontico – il 25 maggio esce su Amazon Prime Video Itaca – Il ritorno, con Ralph Fiennes e Claudio Santamaria). E il finale lo spazietto per il secondo Havoc lo ha lasciato. Del primo, francamente, non ce ne ricorderemo per molto. Ma anche questo è il cinema: intrattenimento ed experience. Pure se lo spettatore sta sul divano.

