La canzone d’autore come elemento a sé, ma soprattutto come parte di un tutto, ben più ampio, con cui è in costante relazione. Canzoni figlie dei tempi, canzoni che i tempi li hanno ispirati o annunciati, canzoni per cambiare, canzoni per ricordarci chi siamo. E non tragga in inganno, in apertura, la dedica che Paolo Talanca, critico per Il Fatto Quotidiano e Avvenire, rivolge a Francesco Guccini “perché senza le sue canzoni per me questa storia non sarebbe mai iniziata”. In “Musica e parole. Breve storia della canzone d’autore in Italia”, fuori ora per i tipi di Carocci, lo spazio per nostalgie personali è pressoché nullo, tale è il rigore con cui l’autore affronta una materia magmatica potenzialmente disorientante. Ma è tutto chiaro fin dall’inizio. Scrive Francesco Stella nella prefazione: “Lo studio della canzone è stato a lungo marginalizzato dalla cultura cosiddetta “alta” e universitaria in particolare. La sua legittimazione come forma d’arte, il cui successo la espone al rischio di condizionamenti commerciali, ha comportato un processo lungo e faticoso”. Successo, condizionamenti commerciali. Tutto ciò che ha reso la vita difficilissima a chi ha provato a delineare percorsi critici seri all’interno della canzone. Di recente Jacopo Tomatis, Umberto Broccoli e Gino Castaldo hanno proposto ottimi saggi – per quanto ispirati da obiettivi leggermente divergenti – sul tema. A questi ora si aggiunge quello di Talanca, che lucidamente segnala: “La canzone è legata alle vicissitudini sociali di una comunità: il modo in cui entra in relazione con l’immaginario collettivo è molto importante. Essa sarà qui intesa come forma di popular music, cioè un’arte che non prescinde mai dal rapporto dialettico con i mezzi di comunicazione di massa”.
"Gli anni Ottanta del Novecento rappresentano un periodo di crisi di questo genere, momento in cui socialmente in Italia si passa in maniera repentina dal “noi” all’“io”. Un passaggio decisivo, secondo Talanca, di cui possiamo ancora avvertire le conseguenze oggi. E oggi, appunto? “Nei primi vent’anni del terzo millennio tutto cambia drasticamente in poco tempo, perché l’informatica e Internet stravolgono i modi produttivi, assieme alle realtà discografiche indipendenti che nel frattempo erano sorte a partire dagli anni Ottanta. La dematerializzazione della musica comporta uno stravolgimento nei supporti e, di conseguenza, nella produzione e nella distribuzione, nel rapporto di forze tra l’artista e l’industria e nel fatto che spesso di quest’ultima – da elemento tra gli altri – non abbia più la forza per imporre una forma alla canzone, che per esistere, farsi conoscere ed essere distribuita può contare anche su altre risorse”. E così, di tappa in tappa, il dinamismo di “Musica e parole” appare come il fulcro dello sforzo di Talanca. Un volume che è un contenitore di titoli, rimandi, eventi. C’è spazio, di fatto, per chiunque abbia lasciato una traccia, più o meno indelebile, nella storia della nostra canzone. Dai classici, ormai canonizzati – Lucio Battisti, Fabrizio De André, Francesco De Gregori, Paolo Conte, Lucio Dalla, Francesco Guccini, Franco Battiato, Ivano Fossati, Vasco Rossi – a quegli autori che Talanca individua come cruciali per comprendere il nostro nuovo oggi (il carrozzone post-indie capitanato da Brunori Sas, ma anche la trap di Izi e Tedua). Premesse essenziali per capire il perché di una presenza o di un’assenza (a dire il vero il volume appare davvero completo, probabile che qualcuno possa lamentare poco spazio per questo o quell’autore, ma più di così, per restare nel breve, non si poteva pretendere). Per capire soprattutto cosa sia – e sia stata – la canzone d’autore, e come essa sia cambiata man mano cambiava la nostra vita, il contesto in cui questo Paese navigava.
In mezzo, fra quei cantautori che secondo alcuni (e in certi casi è già avvenuto) dovrebbero finire nelle antologie delle scuole superiori e coloro che oggi traducono la contemporaneità liquida, la generazione che il sottoscritto – forse ingenerosamente – definirebbe “la generazione incerta” (Niccolò Fabi, Carmen Consoli, Gianluca Grignani, Samuele Bersani, Max Gazzè), ma alla quale Talanca, scientifico, dedica il giusto spazio in quanto rappresentativa di un’evoluzione del nostro scrivere canzoni. Un volume che quindi, chiunque sia ad impugnarlo, costringe al confronto e alla riflessione perché non si ferma e non si accontenta. Sarebbe stato troppo comodo sostare a lungo su quegli autori coperti dalle quiete ombre di un unanime consenso. Ben più difficile arrivare fino ad oggi: “Il disimpegno porta a rifiutare l’approccio intellettuale, ritenuto pesante. Si esaltano i b-movie anni Settanta, il trash revival e le canzonette allegre del passato. Si aggiunga che i millennials – cioè i ragazzi nati tra il 1980 e la metà dei Novanta – sono i primi a fruire la musica in maniera realmente differente: da YouTube anziché da cd”. Con il proseguire della lettura possono farsi largo, a seconda dell’età di chi legge, moti di irrequietezza. Nulla che non possa essere blandito da quell’iperrealista “così vanno le cose, così devono andare…”, che Giovanni Lindo Ferretti cantava in “Fuochi nella notte (di San Giovanni)” (Consorzio Suonatori Indipendenti). E quindi dove siamo arrivati? “Una vulgata che è sostenuta da più parti dalla fine degli anni Dieci è quella che vedrebbe negli artisti del rap e soprattutto della trap i nuovi cantautori. La trap, in particolare, è un sottogenere dell’hip-hop, e in Italia ne rappresenta uno sviluppo che si potrebbe definire al “terzo stadio”: partito dalle posse e proseguito con la perdita dell’ideologia al volgere del millennio. […] I trapper, sempre molto giovani, vengono dalle periferie delle grandi città; spesso sono immigrati di seconda generazione, che non hanno punti di riferimento se non i soldi e il potere ferino, ed esaltano la madre, con la quale sono cresciuti senza un padre”. Infine, anche Talanca, come noi di MOW, cita Ivano Fossati, che il 27 marzo 2023 riceveva una laurea “honoris causa” in Letterature moderne e spettacolo dall’Università di Genova. “Nella lectio magistralis il cantautore ha definito le canzoni come musica e pensieri nati per essere commercializzati, che tuttavia dall’interno di un enorme ingranaggio sono in grado di mostrare i cieli più alti, di mettere le anime a nudo, di insegnarci qualcosa passo dopo passo e senza l’aria di volerlo o di poterlo fare. Se questa meraviglia è il risultato del patto tra gli artisti e l’industria discografica e se, come si dice, in questo patto “faustiano” c’è lo zampino del diavolo, allora non sono certo che l’industria sia il diavolo. L’errore sarebbe ritenere che l’industria sia il male assoluto per l’integrità artistica di una canzone. La canzone d’autore va verso una direzione più complicata ma realistica: i cantautori sono nati in un indispensabile circuito industriale. Questo è il loro punto forte, questa è la battaglia, la resistenza, la sfida: quando qualcuno è stato capace di vincerla, ci ha regalato cose sensazionali”.