“È un giorno freddo e chiaro e non sono invecchiati i tuoi fianchi perfetti. Tutte le leggi dell’universo insieme che potevano fare?”. Questa frase è parte del testo del brano Un natale borghese, contenuta nell’album Decadencing, col quale Ivano Fossati si è accomiatato dal suo pubblico. A immodesto parere di chi scrive quella frase, anzi, quelle due frasi, sono quanto di più alto è stato scritto intorno all’amore che invecchia, senza invecchiare. Ci ho scritto su articoli, libri, un monologo teatrale. Ma non è di quello che voglio parlare oggi. Oggi, invece, voglio parlare di un natale borghese, il mio. O meglio, dell’avvicinamento al natale, un avvicinamento borghese, appunto. Non sono andato via per il ponte dell’Immacolata, ponte che a Milano era piuttosto ghiotto, il 7, Sant’Ambrogio cadeva di giovedì, così da poter fare un filotto di quattro giorni pieni senza prendere neanche un giorno di ferie. Non sono partito perché partirò per le vacanze di Natale, e spostarmi a distanza di un paio di settimane mi sembrava più uno spreco di energie che altro, e non sono partito perché comunque avrei dovuto passare la sera del 7, Sant’Ambrogio appunto, a guardarmi la finale di X Factor, così da scrivere poi le pagelle con mia figlia Lucia, invece in montagna, quindi ho messo una dietro l’altra alcune abitudini proprie dei milanesi, e anche dei tanti che milanesi di nascita non sono ma si trovano a esserlo per contingenza, per scelta o per quel che è. La mattina dell’8 dicembre, quindi, ancora stanco per aver fatto tardi dietro le pagelle della finale di X Factor, la sera prima, e anche per essere stato svegliato il 7 mattino alle 7 dagli operai che stanno lavorando alla costruzione di un palazzo proprio di fronte a quello dove abito io, operai evidentemente di Bergamo, i famosi magut, cosa che se fosse capitata nella mia città natale, Ancona, si sarebbe risolta in una giustizia sommaria compiuta verso i suddetti magut ma che essendo capitata nella civilissima Milano avrà comportato al più una mail risentita all’Amministratore del palazzo, che si faccia sentire con chi di dovere, la mattina dell’8, comunque, sono andato con mia moglie Marina e mio figlio Francesco, dodici anni, alla messa al Duomo. In questi giorni la mia famiglia, solitamente composta di sei persone, è ridotta ai minimi termini, mia figlia Lucia, come detto, è in montagna, mio figlio Tommaso dalla nonna in Ancona, e mia figlia Chiara, gemella di Francesco, a sua volta in montagna con una amichetta. L’idea di andare alla messa al Duomo nel giorno dell’Immacolata è di mia moglie, non credo serva dirlo. E non perché voglio giocare su quella zona d’ombra per cui suppongo che nessuno di voi si immagini che io possa andare alla messa, al Duomo o ovunque, vado abitualmente alla messa, sono figlio di un diacono, fino a qualche anno fa ero pure un catechista, certo il catechista più anomalo in circolazione, ma pur sempre un catechista, ho anche scritto due libri di teologia sotto alter ego, un nome tedesco assai più rassicurante del mio, quanto perché è mia moglie che si lancia in iniziative quasi sempre molto stancanti, tendenti a sovrapporsi, e sempre e comunque che ruotano intorno all’idea che bisogna fare più cose possibili in un lasso di tempo neanche troppo lungo, come fossimo turisti giapponesi di passaggio, letteralmente, in Italia. Perché - da qui il Natale borghese del titolo - ripeto, in realtà un avvicinamento al Natale borghese, dopo la messa al Duomo, messa in latino, dice il sito della diocesi ambrosiana, è previsto un giro all'Artigiano in Fiera, come da prassi. Mancava giusto la prima della Scala e avrei potuto ambire a un Ambrogino d’oro, del resto dopo quello dato esattamente ieri a Pucci credo che potrei ambire anche al Nobel per la Chimica. La messa al Duomo, quindi. So che generalmente scrivo di musica, e che quindi chi mi legge è alla musica che riconduce il mio nome. Certo, nel tempo ho scritto d’altro, molto spesso di viaggi, altrettanto spesso di altri aspetti della cultura popolare, di libri, ma mai mi sono addentrato a scrivere di sante messe. Tempo fa, magari anche ora ma l’ho perso di vista, Camillo Langone, scrittore e giornalista in forza al Foglio di Cerasa, era uso recensire le messe, come fossero degli spettacoli teatrali, dei concerti o dei film. Faceva vere e proprie recensioni, dettagliate, molto argute e divertenti, anche se credo che il suo intento fosse assolutamente serissimo. Io non intendo fare una vera recensione della messa tenuta dal vescovo di Milano, Mario Delpini, anche se la tentazione è forte. Entrato nella cattedrale di Milano, dopo aver passato blandi controlli all’ingresso, e una volta trovato posto nella seconda metà del Duomo, pieno ma non pienissimo, ho realizzato che quello a cui sarei andato incontro non sarebbe durato poco, perché arrivati in ritardo di circa un quarto d’ora, a causa del fatto che buona parte di chi si è trovato a passare il ponte in città ha avuto esattamente la nostra stessa idea, prima Duomo e poi Fiera di Rho, ho potuto constatare che si era ancora ai preamboli, mentre, in una messa normale, si sarebbero già fatte le letture, forse anche quella del Vangelo. Il fatto è che la messa in latino, annunciata dal sito, è in realtà una messa nella quale i canti del coro del Duomo, essi sì in latino, accompagnano ogni singolo momento, rendendo il tutto molto lungo e anche piuttosto liturgico. Ma di una liturgia le cui parole alla lunga diventano quasi semplici note di una litania (mica a caso si dice appunto litania di qualcosa di ripetitivo e noioso). Poi la presenza proprio davanti a noi, nella fila prima della nostra, di due donne con gonne dorate, una di maglina dorata, l’altra di paillette dorate, e ancor più quella di una donna-puffo un paio di file più avanti, alla nostra destra, azzurra la pelliccia, azzurre le manopole per le mani, azzurra la borsa, azzurra la sciarpa, azzurro il cappello da colbacco, azzurre le cuffie per coprire le orecchie. Una sorta di alieno, lì a due passi da noi. Come uno di quegli incubi lucidi che capita di vedere nei film, uno am*azza qualcuno e non viene scoperto, ma i sensi di colpa gli fanno vedere il cadavere nelle situazioni più disparate, mentre è alla recita di Natale dei figli, durante una riunione di lavoro, mentre chiacchiera con gli amici al bar, col risultato di continui attacchi di panico.
Ecco, io non ho uc*iso nessuna signora vestita di azzurro, ma la vedo lì, come davanti a me vedo due donne con la gonna dorata. Nel mentre il vescovo Delpini, lassù sul balconcino da cui tiene l’omelia, sta facendo un discorso riassuntivo e piuttosto didascalico sul perché, a un certo punto, Dio abbia deciso di mandare suo figlio in Terra, e nel farlo è partito con una sequela di situazioni inquietanti e negative, cosa che mi ha fatto venire in mente O che sarà, tradotta da Ivano Fossati e dal medesimo interpretata con Fiorella Mannoia. Anche se lì, in O che sarà, come nella versione originale in brasiliano ( O que serà di Chico Buarque de Hollanda), il Padreterno non è poi così vicino come Delpini ci sta spiegando, costretto a benedirci da così lontano, recita il testo di quella canzone così precisa e chirurgica. Stranamente, nonostante l’atmosfera da sindrome di Stendhal che il Duomo di Milano già chiama di suo, questa messa mi risulta piuttosto fredda, poco coinvolgente, ma su questo un suo peso potrebbe averla la stanchezza di cui sopra, perché è pur vero che non lavoro in miniera e non ho passato le ultime ore a scavare a cento metri da terra con un canarino dentro una gabbietta per avvisarmi nel caso ci sia in giro del grisù, ma è anche vero che stare fino a quasi l’una di notte a scrivere di Fedez o Maria Tomba, converrete con me, può risultare sfibrante. Stavolta, non guardiamo solo il bicchiere mezzo vuoto, nessuno mi ha chiesto di nascondere dentro il giaccone la mia sciarpa, oggi ne indosso una rossa con l’aquila a due teste nera dell’Albania, ricordo del mio viaggio estivo, l’ultima volta che sono venuto, invece, ho dovuto occultare alla vista degli altri la mia sciarpa del West Ham, per ragioni che mi sfuggono, come se chi tifa per gli Hammers non fosse il benvenuto da queste parti. Finita la messa ci facciamo una foto con alle spalle l’albero di Natale di piazza Duomo, quello dedicato alla prossima Olimpiade invernale che proprio qui si terrà, risparmiamoci le battute sul fatto che una olimpiade invernale in una città di pianura dove l’ultima vera nevicata c’è stata nel 1985, così famosa da finire evocata in testi di diverse canzoni, poi siamo scesi verso la metropolitana, scoprendo appunto che con noi a Rho ci sarebbe stato il corrispettivo dell’universo intero, tutto compresso nella medesima carrozza della MM1, Linea rossa. Dal Duomo a Rho ci vuole circa mezzora di viaggio, e passare mezzora compressi in mezzo a una calca degna delle bolge infernali non è piacevolissimo. Tanto meno se si pensa agli articoli letti mentre si stava cagando seduti sulla tazza del cesso che ci raccontano come ci sia un aumento di casi di Covid, da qualche parte si è letto di circa seicento morti nell’ultimo mese, giusto qualche mascherina qua e là a fare da blando promemoria. Una volta scesi, ma non diciamo niente di particolarmente sorprendente, tutta quella massa ammassata si apre in una sorta di onda anomala capace di invadere tutto il percorso che dalla fermata della metropolitana porta fin dentro la fiera, ci vorrebbe il professore di fisica coi capelli sparati in alto bianchi, quello de La fisica che ci piace, per spiegarci il fenomeno di espansione dei gas applicato alla folla che arriva all’Artigiano in Fiera. Entriamo, superando ancora una volta una serie di controlli che ricordano non poco quelli cui era sottoposto Fantozzi quando era costretto dal direttore naturale dell’azienda per cui lavorava a vedere la Corazzata Potemkin mentre in tv c’erano le partite dell’Italia, lui a passarsi le radio da una mano all’altra sotto lo sguardo tonto delle guardie, qui sarei potuto entrare con un bazuka e nessuno se ne sarebbe accorto, del resto perché mai sarei dovuto entrare con un bazuka alla fiera dell’Artigianato? Dove per altro avrei potuto comprare katane o sciabole, vendute in diversi stand, e affettare buona parte degli astanti, andando così a rendere la circolazione un po’ meno faticosa, quindi divenendo giocoforza idolo dei sopravvissuti. Perché se una cosa mi sento di poter dire dopo questa esperienza all’Artigiano in Fiera è che arrivarci a ora di pranzo, la messa in latino è durata un’ora e mezza buona, il giorno dell’Immacolata è la cosa meno saggia da fare. Come decidere di imparare a guidare all’ora di punta. Andiamo dritti ai padiglioni 5 e 7, sul lato sinistro del camminamento che taglia Fiera di Rho in due, perché lì si trovano gli stand relativi a Asia e Africa, tra gli altri, e oggi abbiamo deciso di mangiare orientale. Come noi, scopriamo, tre milioni e mezzo di nostri simili, parte di quella Grande Milano che nessun sindaco è mai riuscito a realizzare, e dire che sarebbe bastato aprire uno stand di ravioli al vapore. Farsi largo tra la folla è qualcosa di complicato, reso ancora più difficile dall’essere un boomer, quindi munito di giacca a vento in mezzo a una pletora di ragazzi in felpa, come cavolo facciano a non provare freddo è qualcosa che la memoria ha cancellato nel mio hard disc.
Arrivati a un angolo del padiglione che presenta da una parte cibi orientali, dall’altra manufatti maghrebini o centro africani, decidiamo, appunto, di fare pranzo mangiando ravioli, io di manzo, Marina vegetariani. I più pignoli tra voi avranno notato che non ho menzionato Francesco, nostro figlio, che in effetti, una volta che ci siamo messi in fila, in una sorta di incastri di carne e ossa che neanche l’inventore di un domino umano avrebbe potuto ideare, decide che no, lui non vuole mangiare ravioli. Così Marina si stacca dalla fila e si infila in un tourbillon altrettanto massivo di carne e ossa che sta facendo la fila davanti allo stand dove vendono una sorta di pasto completo a base di riso, pollo fritto e qualche verdura. Ci guardiamo come immagino si guardino marito e moglie quando uno dei due parte per il fronte, la guerra laggiù da qualche parte a fare paura, e ci ritroviamo qualcosa come mezzora dopo, sudati come mai ci capita di vedere qualcuno dentro le scene di un qualsiasi film hollywoodiano, lei con a fianco Francesco che brandisce la sua scodella di cartone con dentro il suo pasto caldo, io con in mano un piatto che presenta cinque, dico cinque, ravioloni verdi, conditi di salsa piccante. I soliti pignoli, immagino i medesimi di prima, avranno notato che ho parlato di un solo piatto, e non due, perché mentre aspettavo che Marina e Francesco ritornassero, in effetti, mi sono mangiato i miei cinque ravioli, gialli con ripieno di manzo, conditi con salsa di soia, non fosse altro che per non dover schivare la folla che continua a muoversi come se fossimo su un gigantesco tagadà, la sola differenza è che di sottofondo non c’è musica tamarra ma suoni da tutte le parti del mondo. Loro mangiano, io mi chiedo cosa potrei prendere per pranzo, salvo poi ricordarmi che ho già pranzato e che se mai decidessi di prendere qualcos’altro dovrei fare di nuovo code e prendere gomitate sulla gabbia toracica, sudare, tutta quella roba lì. Invece ci allontaniamo, passando per stand austriachi, messicani, argentini, colombiani, confesso che non ho capito la ratio della mappa degli stand, e scopriamo che solo le aree dove si mangia, e neanche tutte, sono piene di gente, le altre sono più facilmente affrontabili. Quindi mi prendo un pretzel in uno stand austriaco, a due euro e mezzo, anche se, non ci fosse stata Marina alle mie spalle, probabilmente mi sarei preso un krapfen gigante a cinque euro, e poi andiamo a farci un giro. È un po’ come se fossimo in un mondo in miniatura, tutti sarete stati prima o poi all’Italia in Miniatura, no?, quella di Rimini o quella di Capriate, solo che non ci sono tutte le nazioni e quelle che ci sono non rispondono esattamente alle dimensioni reali, tipo che la Tunisia è gigantesca, come la Colombia, assai più degli USA, qui rappresentati da diversi stand di nativi americani che vendono prodotti di artigianato, e dallo stand del Texas, dove si mangia carne alla brace senza pietà, mentre aspettavo Marina e Francesco ho passato del tempo facendo blocco come se fossi un pilone di rugby per difendere i ravioli e nel mentre guardare delle miniature di manga e anime in uno stand giapponese, per dire, proprio di fronte a una raviolera coreana. L’Artigiano in Fiera è così, ci trovi un sacco di cibi diversi, di gente di tante nazionalità diverse, a un certo punto anche una coppia di amici, perché come diceva Battisti “è facile incontrarsi anche in una grande città”, se poi ti metti d’accordo è ancora più facile, quindi gente e cibi e alcuni, dei cibi, te li fanno anche assaggiare mentre passi, non so quanti stand ti porgono appiccicosissimi datteri, e prodotti interessanti, dai vasi alle ceramiche, passando per le borse, i cappelli, i monili, da tutte le parti del mondo. Poi ci sono i padiglioni 3 e 1 che invece ospitano gli stand italiani, dove abbiamo comprato conserve e salse da prendere coi formaggi in uno stand calabrese, e dolci abruzzesi a base di mandorle, assaggiando però anche ciauscolo delle nostre parti, nello stand che meno di tutti offriva la possibilità di assaggiare, torroni di non ricordo dove e chissà quante altre delizie. Qui abbiamo constato che le nostre Marche non avevano poi chissà quanto spazio, e su questo credo dovrebbero lavorare, a parte uno stand di olive ascolane e uno di birra di Pesaro erano in prevalenza spazi che presentavano borse e scarpe, il famoso distretto che un tempo si studiava a Economia, quello da cui è arrivato Della Valle. In realtà di stand da vedere ce ne sarebbero stati altri, di sfuggita abbiamo visto un ristoranti australiano che vendevano pietanze a base di carne di coccodrillo o canguro, per dire, roba non esattamente vegana, ma cinque ore in piedi ci sono sembrate abbastanza, per oggi. Avrebbe indubbiamente meritato, perché mica si diventa “un classico” del ponte dell’Immacolata per caso, ma come cantava Fossati, sempre lui: “Coraggio fratelli miei, il cappotto che vado, che vado avanti, tu stai in gamba che vado, come dicono di là dal mare, tu abbi cura di te”. Anche perché anche tornare verso Milano intorno alle cinque, confesso, non si è rivelata come l’idea più saggia del mondo. Già lungo il camminamento ci è parso chiaro che saremmo finiti ancora una volta schiacciati nella calca, e così in effetti è stato. Non siamo riusciti a prendere la prima metro, troppo piena, assistendo per altro a una zuffa tra la security di ATM e un tizio che ha preso le difese di un ragazzo senza biglietto, con tanto di spintoni e insulti, e siamo riusciti a stento a prendere la seconda, passando buona parte del viaggio in piedi, appiccicati a altri viaggiatori che sono poi scesi a Loreto, dove siamo scesi noi, andando poi a prendere la MM2, come a volerci accompagnare non solo simbolicamente, fino al portone di casa. Casa che ci è parsa più vuota del solito, non solo per l’assenza di tre dei nostri quattro figli, quanto perché senza la presenza ingombrante della folla con cui abbiamo condiviso questa festa dell’Immacolata borghese. Fossati, nel momento in cui si è ritirato, nel 2011, ha detto che lo faceva perché voleva andare a passeggiare al mare, frase che suppongo avrà fatto andare di traverso il pasto a tutti quelli che definiscono gli intellettuali intellettualoni o professoroni. In realtà quel che Fossati voleva dire, lui stesso si è poi trovato a spiegarlo di lì a breve più nel dettaglio, è che chi come lui, e in altri aspetti come me, si trova a scrivere viene spesso catapultato nella necessità di guardare a qualsiasi accadimento come a qualcosa che si potrebbe infilare in un testo, raccontare, appunto. Anche andare a passeggiare al mare, o andare a messa al Duomo e poi all’Artigiano in Fiera. Lui è andato in pensione a sessant’anni, senza mai tornare sui suoi passi. Io di anni ne ho cinquantaquattro, devo ancora guardare alle cose che mi capitano come a cose che posso o devo raccontare. Forse vi risparmierò il veglione della Vigilia, ma non metteteci bocca, come cantava proprio Fossati nel brano da cui questo racconto ha mosso i primi passi, “Ciao ciao, passa il Natale, l’aurora e l’avvenire, quando suona il telefono io non risponderei”. Io purtroppo spesso rispondo.