“Il cibo è una storia raccontata da qualcuno? Sì, a volte è così. E se non lo è? Va bene lo stesso”. Portare la cucina americana in Italia è un’operazione difficile: per abitudini, per attaccamento alla tradizione, per il rischio di fare cose già viste. La Meat Crew, invece, ha provato a fare qualcosa di diverso. Abbiamo intervistato il suo ideatore, Mocho, che racconta gli Stati Uniti e la cultura culinaria d’oltreoceano non perché sono un “trend”, ma per passione: “Questo fa la differenza”. E se c’è un posto in cui la cucina è presa fin troppo seriamente, questo è l’Italia: “Non la chiamo crisi del fine dining, ma la gente vuole mangiare anche più tranquillamente, senza dover per forza essere abbottonata a certe regole”. Ora Mocho ha due hamburgherie a Milano, ma il sogno, ci dice, è aprire anche all’estero. E non è detto che questo voglia dire rinunciare alla qualità: “Ormai chi mangia è diventato esigente: non potranno esistere solo la grande catena che offre il prodotto di bassa qualità, o la piccola catena che fa il super prodotto”. Chi c’è riuscito, per esempio, è All’Antico Vinaio, che “ha fatto un lavoro enorme con un prodotto azzeccatissimo”. E sugli chef stellati, la saturazione dei contenuti social sul food, le alternative alla carne e la dieta vegetariana (“Sono un grande fan”) ha le idee chiare. Infine, Bruno Barbieri, “il primo a togliersi la casacca da chef” per diventare un personaggio pop. Perché, in fondo, Masterchef rischiava di renderci tutti un po’ troppo esigenti.
Mocho, noi siamo un Paese molto suscettibile sul tema del cibo, tu però hai scelto di portare una cucina che con l'Italia ha poco a che fare.
In realtà negli ultimi anni l'hamburger è diventato la nuova pizza, per dirlo con una battuta. Nel senso che è un cibo super popolare, che piace a tutti, alle famiglie così come ai bambini. Io ho deciso di raccontarlo in una maniera più vera, che non fosse solo quella del fast food americano, ma portando un modello che comprende delle ricette che hanno storia e qualità. Poi noi italiani siamo fautori della cultura culinaria anche degli Stati Uniti, abbiamo un collegamento speciale con quel paese. Direi che tutto funziona alla fine.
In tanti ci avevano già provato: tu cosa hai fatto di diverso?
Il mio non è nato come un progetto food, ma come un progetto di comunicazione che avevo cominciato su YouTube. Solo dopo si è trasformato in food vero e proprio. Ho avuto la fortuna di andare spesso negli Stati Uniti, assaggiare tante cose diverse, anche lontane dal fast food, quindi locali aperti da persone che sono lì da cinquant’anni e fanno ancora lo stesso prodotto. Ho cercato di riportare queste esperienze alla mia maniera, processate e riviste da me, facendo anche attenzione alla qualità, un aspetto che magari spesso non viene raccontato.
Qual è la cosa che non deve mancare nella comunicazione del food?
Dico l'unicità, perché è vero che adesso ci sono tantissimi contenuti, ma sembrano fatti tutti dalle stesse persone. Io invece parlo di cose che mi piacciono e quello non deve mai mancare. Tante volte si parla di ciò che non ci piace perché è più facile, crea più engagement, oppure solo di cose virali. Non parlo di hamburger perché sono in trend, ma perché mi piacciono l’America e quel tipo di cibo. Questo secondo me fa la differenza.
All’inizio hai ricevuto qualche critica?
Fin da quando ero piccolo c’erano mia nonna e mia mamma, che sono delle grandi cuoche, che magari mi criticavano, se davvero così si può dire. Poi anche loro hanno capito il valore del viaggio, della scoperta delle cose diverse. E il bello è anche quello, scoprire cose lontane ma che ti possono affascinare. L'hamburger per me è stato un colpo di fulmine.
Rimanendo sui social: secondo te siamo arrivati a un punto di saturazione per i contenuti sul food?
Sì, sono abbastanza d'accordo. Nel momento in cui dieci ristoranti fanno lo stesso contenuto, allora che cos'è che conta poi veramente? La comunicazione non ha più valore. E allora tornerà a contare il prodotto? Forse sì. Se tutti comunicano nello stesso modo vuol dire che nessuno comunica, non fa la differenza, non emerge. I numeri poi non sono significato di successo: quello che succede sui social in termini numerici non è ciò che poi succede effettivamente nel punto vendita. Se la comunicazione è più attiva ma diventa uguale per tutti non ne ha più giovamento nessuno. Quindi sì, stiamo arrivando a un punto di saturazione, dove gli utenti dei social skipperanno velocemente il contenuto, perché tanto l’hanno già visto dieci volte.
In un’altra intervista hai parlato dell'eventualità di aprire all'estero. Non è un rischio per te che intendi il tuo menù in maniera così personale?
Sì, ma è anche quello che ho sempre sognato di fare. È vero che siamo attenti al prodotto, alla qualità, ma non è detto che questa cosa non si possa scalare. Ci sono esempi negli Stati Uniti di grandi catene che lo hanno fatto mantenendo alta la qualità con un prezzo base più elevato. È logico che allargare il business può significare perdere il focus, ma dipende da come lo si fa. E credo che il futuro sarà sempre più così, perché ormai chi mangia è diventato esigente: non potranno esistere solo la grande catena che offre il prodotto di bassa qualità, o la piccola catena che fa il super prodotto. Stanno nascendo invece delle vie di mezzo come la nostra. Noi siamo un format e vogliamo essere ripetibili in Italia, in Europa o chissà dove.
Un esempio di questo tipo è All’Antico vinaio?
Assolutamente sì, lui è stato incredibile, ha fatto un lavoro enorme con un prodotto azzeccatissimo, che può funzionare ovunque nel mondo, ma che è ancora poco visto. L'hamburger è molto più conosciuto se lo paragoniamo alla schiacciata. Poi chiaro, ci sono delle persone che dicono che era meglio prima: sì, sono d'accordo che magari quando fai dieci focacce al giorno riesci a curarle di più, ma secondo me All’Antico Vinaio è un esempio di un prodotto che si è saputo mantenere bello pur facendo una scalata pazzesca.
C’è qualche chef stellato che ti ha criticato per come parli dei fast food?
Quello fa parte del gioco ed è anche comprensibile. Io non ho l'arroganza di parlare di cucina a pari livello con uno chef. Posso però parlare di gusto, perché comunque ne ho uno molto ben definito. C’è da dire che adesso, in effetti, sono tutti chef e posso capire che i professionisti si siano risentiti. Non la chiamo crisi del fine dining, ma la gente vuole mangiare anche più tranquillamente, senza dover per forza essere abbottonata a certe regole, anche cercando ossessivamente la qualità. Ho come l’impressione che se ne parli nel modo sbagliato.
Cosa intendi?
Quando eravamo piccoli il panino col salame sembrava una roba pazzesca. Non era per forza il pane fatto con i grani antichi, per dirne una. Si può parlare di cibo anche in una maniera meno seriosa. Non dico che si debbano mangiare schifezze tutto il giorno, sia chiaro, ma una via di mezzo c’è sicuramente. Il cibo deve essere anche divertimento, perché se non c’è quello va a finire che ci focalizziamo solo sul trovare cosa non va. Insomma, si perde un po' di fascino. Il cibo è una storia raccontata da qualcuno, come dicono gli chef? Sì, a volte è così. E se non lo è? Va bene lo stesso, non dobbiamo avere la pretesa che lo sia sempre e comunque.
In Italia poi siamo molto attaccati alla tradizione, basti pensare alla cipolla nell’amatriciana.
In Italia abbiamo la memoria corta. La panna, per esempio, la dimentichiamo? Siamo fatti così, che ci vuoi fare. Io su questa cosa ovviamente ci ho giocato, perché per me il cibo è divertimento. È anche bello che ci siano le fazioni, con i tradizionalisti che si arrabbiano. Un po' gli estremisti mi infastidiscono se devo dire la verità. Le cose vanno sempre giudicate in base ciò che sono. Ciò che importa è se ti piacciono, indipendentemente da che ci sia la panna o no.
Prendere il cibo, diciamo così, più alla leggera ci porta a parlare anche dei prezzi di un menù.
Io credo che ci debba essere la libertà di mangiare quello che si vuole. E questo è anche un elemento sociale, se vogliamo. È logico che ci sono posti che fanno il cibo a dieci euro e posti invece che lo fanno pagare cento. Purtroppo viviamo anche in un'epoca in cui non tutti hanno accesso a del buon cibo a un prezzo economico, è molto difficile. Io ho la mia hamburgheria, ma non per questo non vado a mangiare un kebab ogni tanto, oppure un raviolo cinese a Chinatown a quattro euro. È una questione di equilibrio, come in tutte le cose.
Legato al tema della sostenibilità c’è quello della riduzione o della totale rinuncia alla carne. Tu cosa ne pensi?
Io sono un fan di tutte queste nuove tendenze e prodotti, come Beyond Meat o cose simili. Noto che queste aziende stanno puntando molto più al carnivoro che vuole ridurre il consumo della carne, che al vegetariano che vuole imporre agli altri la sua dieta. Noi abbiamo selezionato dei prodotti di diverso tipo perché sappiamo che la nostra clientela non vuole sempre mangiare carne. Sono consapevole che non si può mangiare quel cibo ogni giorno. Fa tutto parte di una dieta che ognuno di noi cerca di organizzare al meglio. I miei menù rappresentano tante volte lo sgarro, quella volta che si vuole mangiare senza pensare troppo, appunto. È un tema molto difficile, che non si esaurisce in quattro parole, ma non lo si può ignorare assolutamente.
Al tempo avevi fatto un video con Bruno Barbieri sul mac and cheese. Lui è stato uno dei riferimenti in questo mondo del food?
Di lui ho apprezzato che si è tolto la casacca da chef per comunicare a un livello più popolare. Questa è stata la sua bravura. È stato bello vedere come un professionista come lui si prestasse anche a cucinare una ricetta del genere. E non è scontato. C’è sicuramente qualcuno che avrebbe detto di no. Bruno invece si è prestato molto al gioco e penso che tanti si siano fatti ispirare da quest'anima più pop. Chef Barbieri è stato uno dei primi che è diventato un po' più personaggio e meno cuoco, mantenendo comunque la sua aura.
Come si fa a comunicare la qualità tenendo presente l'idea del fast food?
Quando parli di qualità puoi andare a parlare degli ingredienti che usi: le patate, le salse, il tipo di spezie sulla carne che viene scelta. Poi è logico che non potrà mai essere quella di un ristorante che serve solo insalata. In realtà quando parlo di qualità parlo anche sempre di prodotti scelti, selezionati e fatti da noi, perché la nostra forza è quella avere sempre ricette nostre, fatte con ingredienti che provengono da filiere più piccole. Anche quello è un modo per offrire un tipo di qualità diverso. Poi sono uno che su questa cosa non vuole battere troppo il chiodo perché, come dicevo, penso che la nostra esperienza vada vissuta anche un po' nella sua maniera più goduriosa.