Non avesse mai detto Romano Prodi che Giorgia Meloni piace e funziona a livello europoeo e internazionale perché è ubbidiente: gli ambienti vicini alla premier lo stanno divorando, soprattutto puntando sulla crisi dell’automotive. Una critica che gli era già arrivata dal ministro Urso la primavera scorsa, per cui Prodi sarebbe stato la principale causa del tracollo automobilistico italiano, avendo ceduto Alfa Romeo alla famiglia Agnelli ed eliminando la concorrenza all’interno del mercato italiano. Prodi, dal canto suo, ha accusato Meloni di avergli copiato alcune dichiarazioni sulla crisi Stellantis. Maurizio Belpietro, sempre zelante nel difendere Giorgia Meloni e sulla questione Fiat e Alfa Romeo, ha pubblicato un editoriale in cui fa le pulci all’ex Presidente del Consiglio, chiedendosi: Meloni secondo Prodi è ubbidiente? Vediamo un po’ come si comportava lui. Belpietro spiega che Romano Prodi iniziò la sua carriera politica come democristiano vicino alla corrente dorotea, ma quando intuì che avrebbe avuto maggiori opportunità avvicinandosi ad Amintore Fanfani e Aldo Moro, con cui era legato il suo mentore Andreatta, avrebbe deciso di cambiare schieramento. Questo cambio gli avrebbe rapidamente fruttato un incarico da ministro dell'Industria, seppure per un breve periodo di quattro mesi, durante il quale varò una legge sulle riconversioni industriali, accolta favorevolmente da una Confindustria allora rappresentata dall’avvocato Agnelli. Inoltre, durante il suo mandato come presidente dell'Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale), Prodi secondo Belpietro avrebbe dimostrato ulteriore acquiescenza verso i cosiddetti poteri forti.
In primo luogo, Romano Prodi avrebbe deciso di vendere la Sme, una finanziaria statale nel settore agroalimentare, a Carlo De Benedetti per 497 miliardi di lire, dilazionati in quattro rate. Questo tentativo fu bloccato da Bettino Craxi, e anni dopo la SME fu venduta per oltre 2000 miliardi. Un’altra decisione controversa, e questo è il punto più caldo, vista la crisi attuale e disastrosa del settore auto, fu la vendita di Alfa Romeo agli Agnelli per circa 1000 miliardi di lire, sempre con pagamenti rateali e senza interessi, nonostante la Ford avesse offerto una cifra molto più alta, tra i 3000 e i 4000 miliardi, oltre a investimenti per ulteriori 4000 miliardi. Queste scelte, secondo il direttore della Verità, evidenzierebbero la disponibilità di Prodi a favorire interessi specifici, un atteggiamento sarebbe stato anche confermato successivamente nei panni di Presidente del Consiglio, quando la privatizzazione della telefonia di Stato portò alla nomina di un manager legato alla Fiat alla presidenza di Telecom Italia, con un coinvolgimento diretto della famiglia Agnelli. A quanto riporta Belpietro, Prodi rivendicò un presunto risanamento dei conti dell’Iri, ma secondo Enrico Cuccia si sarebbe trattato solo di un maquillage finanziario: le perdite accumulate dalla siderurgia furono semplicemente allocate nelle riserve. La Corte dei conti, analizzando le privatizzazioni realizzate in quegli anni, rilevò che i benefici per le aziende privatizzate derivavano principalmente dall’aumento delle tariffe di energia, autostrade e banche, a scapito dei consumatori.
Un’altra decisione contestata a Prodi fu l’adesione dell’Italia all’euro. Sebbene fosse importante per il Paese rimanere integrato nel progetto europeo, l’allora presidente accettò un tasso di cambio sfavorevole, fissato a 1936,27 lire per marco tedesco, che penalizzò l’economia italiana. Questo atteggiamento arrendevole verso la Germania di Helmut Kohl sembrò essere ripagato anni dopo, secondo Belpietro, con la nomina di Prodi a presidente della Commissione europea. Un approccio di obbedienza che sarebbe stato riproposto nei confronti della Cina, favorendo l'ingresso della Repubblica Popolare nel Wto (World Trade Organization) senza condizioni. Da presidente della Commissione Ue, Prodi avrebbe contribuito inoltre a consolidare i legami commerciali tra Cina ed Europa, stringendo anche rapporti personali con la leadership cinese. Questo impegno culminò simbolicamente con l’inaugurazione di una cattedra di Cultura Italiana presso un’università di Pechino intitolata alla famiglia Agnelli, di nuovo, e affidata proprio a Prodi. L’ex presidente rinominato Mortadella, dal canto suo, aveva già risposto sulla questione Alfa al ministro Urso, specificando che il suo interesse “non è mai stato vendere alla Fiat l'Alfa Romeo: non sono mai stato un monopolista. Presi invece contatti con tutti i possibili acquirenti e solo la Ford si mostrò interessata. Le trattative, magistralmente condotte dai tecnici di Finmeccanica, approdarono ad una richiesta, da parte della Ford, di colloqui con me. Quando il loro piano fu pronto avvisai Alex Trotman, presidente di Ford Europa, che una volta reso pubblico tutti in Italia, sotto la spinta della Fiat, avrebbero reagito, dai sindacati ai sindaci agli imprenditori. E così fu. La Ford, nonostante questo, aveva deciso che non avrebbe offerto un solo dollaro in più. La Fiat si fece avanti mettendo sul tavolo più denaro e offrendo di comperare anche tutte le azioni, a differenza della Ford che, come aveva promesso, non rilanciò. A quel punto Finmeccanica non aveva alternative che vendere al miglior offerente, secondo gli obblighi di legge”. La polemica è aperta anche se, a conti fatti, i numeri sull’occupazione e sulle vendite ci dicono che in ogni caso è andata a finire male.