Dalla Jugoslavia a Milano, passando per Roma, negli anni in cui nella capitale il mondo del cinema si estendeva in ogni angolo nella città: “Andavi in via a Veneto e ti facevano fare I pugni in tasca, facevi un incidente con Pasquale Squitieri sul raccordo e diventavi protagonista”. Abbiamo intervistato Robert Gligorov, uno dei protagonisti dell’epoca d’oro dei fotoromanzi dell’agenzia Lancio. Uno che ha lavorato con Lucio Fulci e Umberto Lenzi, per dire. Poi è arrivata la musica, e Gligorov ha messo in pratica tutto ciò che aveva imparato sui set: “Sono entrato nel mondo discografico realizzando copertine di dischi, videoclip musicali, fotografie, proposte, idee”. E tra i nomi con cui ha lavorato ci sono anche i Bluvertigo. Nel 1996, invece, arriva una decisione radicale: “Mi rendevo conto che in ogni cosa che avevo fatto c’era qualcosa di mio”. Quindi Robert Gligorov diventa un artista autonomo: “Un artista non deve fare migliaia di opere: se riesce a farne una veramente potente può dirsi soddisfatto. Vermeer ha prodotto 21 quadri. Puoi produrre anche una sola canzone e rimanere nella storia della musica”. Ringraziamo Eugenio Ercolani, che ha realizzato l'intervista.
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Si può parlare del contesto sociale in cui sei cresciuto, in Macedonia soprattutto, e che eredità ti ha lasciato sia a livello emotivo che creativo?
Ho vissuto una vita molto avventurosa. Nasco in Jugoslavia, paese comunista, filorusso, Tito era ancora vivo. Sono cresciuto con dei valori come lo sport, la forza, l'eroismo e la nazione. Poi i miei hanno divorziato e ho vissuto in tante diverse famiglie in Dalmazia, in Istria e in Macedonia. A 15 anni arrivo in Italia. All’inizio ho avuto grossi problemi con la lingua, con la cultura italiana, mi sono arrangiato sempre un po' per conto mio. L'Italia però era il Paese dei sogni per la Jugoslavia, dove c'era libertà, dove si potevano tenere tantissimi oggetti che allora mi sembravano importanti, come i jeans, le magliette Fruit of the Loom. Tutta una serie di cose che adesso sembrano banali.
Quindi l'Italia rappresentava per te un po’ quello che per altri ha rappresentato l’America.
Sì, esatto. Mia madre era già venuta qui e quando finalmente si è sistemata allora mi ha voluto con lei. Solo che io ero un'altra persona, non ero più il bambino gestibile che aveva conosciuto, per questo non siamo riusciti ad avere una convivenza molto pacifica.
Qual è stato l'impatto con la cultura italiana?
Ovviamente non capivo all'epoca, però stavano succedendo molte cose: le stragi, le lotte politiche di destra e sinistra. Cercavo di cogliere gli aspetti importanti di questi cambiamenti. Una cosa su cui mi sono concentrato è lo sport, specialmente quelli in piscina. All'epoca c'erano due campioni, Klaus Dibiasi e Giorgio Cagnotto, che erano un po' dei modelli, erano famosi anche nel mio Paese.
Cosa ricordi della tua esperienza nei fotoromanzi?
All’inizio dovevo trovare il modo di sopravvivere, facevo il modello, l'attore, qualsiasi cosa che mi permettesse di essere autonomo. Quindi ho conosciuto un make-up artist, si chiama Diego della Palma, che mi ha detto che alla Mondadori stavano facendo dei provini. Io ne feci uno e mi richiamarono per sottoscrivere un contratto. Mentre lavoravo lì c’erano divi come Franco Gasparri o Claudia Rivelli. In seguito sono andato a Roma, ho incontrato delle persone della Lancio e dopo poco ho ricevuto una telefonata per fare delle piccole parti. Non è passato molto tempo prima della chiamata come protagonista. Il salto qualitativo ed economico fu notevole. È stato veramente un sogno, avevo solo 18 anni.
E per la tua formazione da fotografo cosa ha significato?
Lì ho cominciato a capire le macchine fotografiche, come si sviluppavano i rullini, il ruolo dell'attore, il volto, le espressioni.
Non hai frequentato scuole?
No, era quasi tutto una questione di relazioni, poi quando uno ha tanta fame si butta. Il primo film a cui ho preso parte è stato Cicciabomba di Umberto Lenzi, con Donatella Rettore, prodotto da Alberto Tarallo, che tra l'altro è un agente e talent scout molto famoso per le fiction. Io interpretavo Marilyn Monroe, è stato abbastanza divertente. Cominciai a capire tutti i meccanismi che regolano i rapporti tra produttori, registi e sceneggiatori.
Con Lenzi com'era il rapporto?
Era burbero, un po' particolare, il genere della commedia non gli apparteneva tanto. Con lui però ho avuto un ottimo rapporto.
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Cosa ricordi di Donatella Rettore?
La dieta: era fissata. In quel periodo aveva lavorato con Elton John e Kiki Smith. Ricordo che mangiava sempre soltanto una mela. Tanto è vero che il film parla proprio di questo, di lei che viene da un paesino del Veneto, all’inizio è grassa ma poi trova il suo riscatto. Cicciabomba può sembrare un film comico, ma in realtà riguarda un tema su cui si è tornati molto negli anni.
E invece dell'esperienza di Murderock di Lucio Fulci?
Anche lì è stata una cosa abbastanza lineare. Poi un conto sono i protagonisti, un conto il contorno. Io facevo parte di un corpo di ballo di ragazzi, mi hanno pagato anche le scuole di danza. C'erano anche tutti i ballerini di Raffaella Carrà. E ovviamente, come con Lenzi, percepisci sempre una mitologia dietro quelle storie.
A proposito del cast: con chi hai avuto un rapporto un po' più stretto?
I ballerini di Raffaella Carrà erano molto disponibili. Invece con un altro ho avuto dei problemi: Helmut Berger.
Che tipo di problemi avevi?
Eravamo sul set di un film che si svolgeva tutto su una nave chiamata Skipper. Il produttore era Vittorio Cecchi Gori. Dopo una giornata di riprese nasce un litigio, perché io avevo avuto più battute di lui: me le ha tolte quasi tutte, minacciando di andarsene. C'è chi lotta nella savana per un pezzo di coscia d'antilope, c'è chi lotta per una battuta in più in un film italiano come Skipper.
Erano tutte doppiate le produzioni, giusto?
Sì, i doppiaggi li facevano vicino Roma, non so, magari li fanno ancora da quelle parti. Quando andavi al bar c'erano tutti i doppiatori che sentivi nei film. Sembrava un film di Martin Scorsese.
Il cinema italiano di quel periodo è stato rivalutato anche all'estero.
I vari Tarantino, Cimino e lo stesso Scorsese hanno preso molto dal cinema di quel periodo. I nostri operatori avevano questa capacità di fare sempre qualche cosa di artigianale, di improvvisato, una “Italian Way”. Lì ho conosciuto Lucio Fulci, che ha avuto la sua storia, le sue tragedie personali, faceva parte un po' del mito del personaggio, segnato in modo inesorabile. La sua sofferenza l'ha portata nel cinema, come per esorcizzare certe cose.
Probabilmente noi da piccoli andiamo incontro a cose che ci segnano in modo indelebile. Magari nella scrittura o nella fotografia vengono fuori.
Perché in una certa epoca della tua vita il tuo trauma ti ha segnato, ha graffiato quella superficie levigata che è la tua psiche. Probabilmente intorno a Fulci c'era questo mito, ha vissuto delle cose che poi ha cercato di superare.
Hai avuto la percezione di una rivalutazione di Fulci?
Devo dire che mi è sembrato giusto, perché era un vero professionista e non un improvvisato. Questo vale anche per Dario Argento o altri. Sono cambiamenti che spesso dipendono dall’America. A un certo punto, quando Tarantino dice che il suo attore preferito è Franco Nero, allora viene riscoperto anche qui. Django, su cui lui ha fatto un film, è un western italiano, però lui lo riprende e lo trasforma con la sua sensibilità. Un altro artista sdoganato è Caravaggio, che fino al Novecento era dormiente come artista. Sempre pensando all’America mi viene in mente John Travolta, che dopo Grease si era bruciato. Poi è arrivato Tarantino e l'ha sdoganato con Pulp Fiction, gli ha dato un’altra vita. Una cosa simile è successa a George Romero, che quando faceva i film sugli zombie veniva considerato qualcosa di trash. Adesso finalmente l’hanno capito e rivalutato. Se in un'epoca si producono tanti horror o cinepanettoni c'è un motivo. Evidentemente se c’è una forte offerta vuol dire che c’è una grande domanda.
E nella musica come si configura questo discorso?
La musica in Italia, quella leggera, è diventata, scusatemi il termine, demenziale. Se vai a vedere su Spotify chi sono i più ascoltati ci sono dei nomi come i Genesis o i Rolling Stones, Aretha Franklin o Stevie Wonder. Solo che i discografici vogliono tutto e subito. In Italia abbiamo l’esempio di Zucchero: lui fece tre dischi che non andarono benissimo, poi andò a Sanremo con Donne ed esplose. So che il presidente della PolyGram, Paolo Rebulla, andò da lui con un assegno in bianco. Però gli hanno dato la possibilità di fare tre dischi. Ora non è più così, devi fare subito un pezzo che funziona. E questa è una delle cose che ha abbassato il livello di ciò che viene prodotto.
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Cosa ricordi di Deliria, il film di Michele Soavi?
Lui è stato assistente di Argento, quindi ha avuto un grande maestro. Gestiva il set in un modo eccellente. Poi Deliria è diventato un film di culto. Nel cast c’erano David Brandon, un attore molto bravo e credibile, e Barbara Cupisti, che aveva un volto incredibile, potrebbe essere tranquillamente una seconda Sophia Loren. C'era anche Giovanni Lombardo Radice, un altro veramente preparato.
Ti capita di riguardare quei film?
Non riunisco gli amici la sera per guardare il film di una volta, questo cerco di evitarlo. Devo dire che allora era cazzeggio, soldi e sembrava tutto bellissimo.
È di quel periodo Caligola di Tinto Brass, prodotto da Bob Guccione, con Malcolm McDowell: se n'è parlato molto, no?
Io ho fatto un film che riprende qualla tematica, Roma. L'antica chiave dei sensi di Lorenzo Onorati. Mi hanno preso senza nemmeno un provino. I produttori facevano film hard e quando accumulavano dei soldi investivano in film di serie a. Poi il film è stato distribuito in Jugoslavia e nelle capitali e mi sono ritrovato celebre anche nel mio Paese. È stata una forma di riscatto.
Hai anche conosciuto Joe D’Amato?
Sì, questa è una cosa carina. Io all'epoca, lo posso dire, ero uno splendido ventiquattrenne, una fotocopia più o meno di Sting. Durante le riprese di Deliria, proprio Joe D'Amato voleva farmi fare un film da protagonista, Eleven Days, Eleven Nights. Finito il film di Soavi, ci vediamo per i contratti e finalmente leggo anche la sceneggiatura, per capire che cosa mi propongono. Avrei dovuto fare scene di nudo, ma a quel punto non ho accettato. Non che io sia pudico, perché nella mia arte ho fatto anche di peggio, però non mi andava di girare nudo su un set. Il mio nome appare comunque nel film, non so perché.
Un film che non abbiamo ancora citato è Gli invisibili di Pasquale Squitieri.
Ricordo una scena girata in un carcere in sommossa, sono arrivate le teste di cuoio che hanno sparato lacrimogeni, neutralizzando tutti i rivoltosi. Un aiuto regista aveva portato il pomodoro per fare il sangue. E Squitieri l'ha menato, letteralmente, e l'ha cacciato via dal set. Come dire, il sangue di pomodoro non è accettabile. Il protagonista, Alfredo Rotella, fa un incidente sul raccordo anulare di Roma proprio con Squitieri. I due non si conoscono, cominciano a insultarsi, a spingersi, quasi si menano, perché poi Pasquale era un po' fumantino. A un certo punto si sono rappacificati e l'ha preso come protagonista per il film. Alla fine, Roma era questo: andavi in via a Veneto e ti facevano fare I pugni in tasca, facevi un incidente con Pasquale Squitieri sul raccordo e diventavi protagonista.
E come avviene il tuo passaggio al mondo della musica?
Il motivo per cui stavo a Roma, oltre al cinema e i fotoromanzi, era una ragazza inglese con cui ero fidanzato. Una volta finita quella storia d'amore, ho preso i due gatti e la mia Volkswagen e ho lasciato Roma per venire da mia madre a Milano. Però come dicevo prima il rapporto con lei non era facile. Ho speso tutti i soldi guadagnati, per un motivo o per un altro sono volati, ma se sei giovane è normale. E poi sono tornato al primo amore, non di una donna, ma del disegno. Ricordo una frase di Walt Disney, che diceva che se qualcosa non funziona sulla carta non funziona neanche sulla pellicola. In quel periodo ho cominciato ad approcciarmi ai Duran Duran, a Madonna, a Prince, andavo nelle case discografiche per avere il loro materiale e realizzavo queste specie di storyboard per degli ipotetici video. Sono entrato in contatto con i cantanti e ho cominciato a fotografarli.
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Qualche nome?
Biagio Antonacci, Milva, Gino Paoli, Zucchero, ma ce ne sarebbero tantissimi. Sono entrato nel mondo discografico realizzando copertine di dischi, videoclip musicali, fotografie, proposte, idee. Avevo tantissimo materiale di gente che voleva cantare e mi sono trovato a essere anche produttore musicale. A un certo punto ho avuto quest'idea di realizzare un libro con tutte le canzoni dei Police e di Sting. Una volta realizzate le tavole con i disegni, c'era da fare l'incontro con lui, che era in Italia. Scopriamo in che hotel alloggia, andiamo lì e chiediamo al suo manager di poterci parlare. Dopo un po' mi vedo apparire Sting: era entusiasta. Poi ho prodotto anche vari gruppi musicali, tra cui i Bluvertigo. Io feci una mostra a Milano, il primo MiArt: lì esposi i Bluvertigo. Se Andy Warhol aveva prodotto i Velvet Underground, io ho prodotto loro.
Nel 1996 decidi di chiudere con tutto l'aspetto commerciale e discografico.
Sì, smetto lavorare su commissione. È una scelta radicale, non perché fossi stufo, ma perché mi rendevo conto che in ogni cosa che avevo fatto c’era qualcosa di mio. Tanto valeva staccarmi.
Cosa hai voluto raccontare nelle tue opere? C'è sempre una sorta di esperienza sensoriale che vuoi trasmettere, non solo un'immagine.
Ci sono due elementi ricorrenti: l'horror vacui, cioè il fatto di voler comunque riempire la tela, e quello del controllo di ogni minimo dettaglio. La mania della composizione è una cosa che viene dalla formazione classica, legata forse al rinascimento. Un quadro funziona solo se ha una bella grafica, ma è difficile. Nella mia arte poi c'è sicuramente un aspetto autobiografico. All'inizio abbiamo parlato della Jugoslavia, delle esperienze fatte in una terra arcaica, libera, selvaggia, ma anche dittatoriale. In seguito, mi sono allontanato dal mio egocentrismo per avere più un occhio da osservatore sulla società. Un artista non deve fare migliaia di opere: se riesce a farne una di veramente potente può dirsi soddisfatto. Vermeer ha prodotto 21 quadri. Puoi produrre anche una sola canzone e rimanere nella storia della musica.
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