L’equilibrio, quando si parla di carcere, è instabile: da una parte la necessità di garantire la sicurezza nelle strutture; dall’altra la dignità dei detenuti, spesso data per scontata. Il regista Lucio Laugelli ha raccontato un periodo particolare per gli istituti carcerari in Italia: gli anni Settanta, con i detenuti politici e i “braccetti della morte”, un regime più duro del 41bis, secondo coloro che li hanno vissuti. Su Amazon Prime Video è disponibile il docufilm Mario Rossi – Di comune solo il nome, in cui il criminale genovese ripercorre la sua vita, gli errori, le contraddizioni di quell’esistenza al limite. E il periodo passato in carcere, appunto. Non è una storia di redenzione, Laugelli non punta a romanticizzare la banda Rossi. Un atteggiamento che in alcuni film del passato è troppo evidente e che non “è rispettoso né nei confronti delle persone che hanno sofferto direttamente o indirettamente per quegli eventi, né per lo spettatore”. Un istituto alternativo al carcere, comunque, per il regista rimane utopistico. Ma cosa rimane oggi di quella violenza di strada? “Si è convertita in violenza digitale”. E della lotta politica degli anni di Piombo? Le armi hanno smesso di sparare, ma lo strumento per far male oggi è lo smartphone. Ne hanno avuto le prove in America con l’assalto a Capitol Hill. Per non parlare della radicalizzazione che avviene proprio grazie ai messaggi disponibili sui social. E rimane una difficoltà: interpretare i codici del crimine, un mondo “normato da regole folli, dove se sbagli muori”.
Lucio Laugelli, cos'è che ti interessa di questo mondo che è il carcere?
Io mi ci sono ritrovato un po' per caso, nel senso che nel 2018 mi avevano proposto di fare un laboratorio all'interno del carcere di San Michele dedicato al cinema. Lì ho conosciuto alcuni detenuti, tra cui Mario Rossi, e la sintesi di questo progetto era stato un piccolo documentario di circa 20 minuti che si intitolava Voci di Dentro, che è disponibile su YouTube. È un documentario che a distanza di anni continua a fare numerose visualizzazioni, si leggono commenti, si accendono dibattiti a volte costruttivi, a volte meno, però mi pare che vada per le 300mila visualizzazioni, quindi vuol dire che è un tema di cui c'è sempre bisogno di parlare. Nel tempo ho mantenuto i contatti con Rossi tramite lettere e colloqui. A un certo punto ho pensato che la sua storia fosse importante da raccontare, senza alcuna intenzione romantica.
Perché secondo te gli anni Settanta sono un momento così significativo per la storia delle carceri italiane?
Io credo che gli anni Settanta, dentro e fuori dagli istituti penitenziari, rappresentino un unicum: da un lato la polarizzazione tra detenuti politici, di una e dell'altra schiera, e dall'altra i delinquenti comuni come Mario, che si ritrovano a vivere in strutture che sono delle polveriere, perché tra Brigate Rosse e terroristi neri, tra cutoliani e anti-cutoliani, si creano delle vere e proprie faide. I criminali come lui, che non appartengono a una fazione politica, sono catapultati in un universo parallelo molto feroce e complesso.
Capitava che la politicizzazione avvenisse in carcere, proprio per la vicinanza con terroristi neri o rossi.
Assolutamente sì. Non è il caso di Rossi, che comunque nel carcere di Cuneo conosce il brigatista Francesco Lo Bianco, e grazie a lui scopre la pittura. Però qualche anno prima conosce un terrorista nero, Mario Tuti, soprannominato Caterpillar, con cui poi organizza la rivolta del carcere di Porto Azzurro del 1986. Quindi lui non si politicizza e, sebbene sia orientato a sinistra come indole, non diventa mai un detenuto politico.
Si è parlato molto di M – Il figlio del secolo relativamente all'interpretazione di Luca Marinelli e alla necessaria sospensione del giudizio morale sul Ventennio. Come si fa da regista ad approcciarsi a persone con un passato criminale?
Io credo sia fondamentale lavorare da giornalisti più che da autori, e quindi guardare alle cose con distacco e raccontarle per quello che sono, come dicevo prima, senza alcun intento romantico, senza fare quello che ogni tanto coi gangster avviene. Penso a Vallanzasca e al film con Kim Rossi Stuart di Michele Placido (Gli angeli del male, ndr). È un attimo cadere in quella trappola e questo non è rispettoso né nei confronti delle persone che hanno sofferto direttamente o indirettamente per quegli eventi, né per lo spettatore.
In relazione al carcere si parla spesso di sicurezza ma non di dignità: tu cosa ne pensi?
Sono d'accordo, teniamo però presente che esistono esempi virtuosi, mi viene in mente il carcere di Bollate. Purtroppo la maggior parte delle strutture detentive punta alla sicurezza e alla punizione, ma il detenuto va anche recuperato, perché i casi di recidiva sono moltissimi. La percentuale bassa di Bollate, per esempio, è un dato su cui riflettere: se non ci limitiamo a chiudere le persone in celle e lasciarle lì, ma facciamo delle attività che possano anche prepararli a ritornare in società, ecco che il detenuto esce con una consapevolezza diversa. Invece nelle strutture più rigide, dove queste attività sono poche o nulle, non si fa che parlare di rapine, furti, omicidi e allora è chiaro che il tasso di recidiva aumenta. Lo Stato in quel caso ha fallito, perché ci ritroviamo per strada delle persone che non hanno una collocazione.
Ti sei fatto un'idea su una possibile alternativa all'istituto carcerario? Ci credi?
Non riesco a immaginare un'alternativa totale, forse per pene meno gravi rispetto all’omicidio. Sarebbe molto bello, ma temo che sia utopistico.
Parlare di carcere significa anche relazionarsi con il tema della violenza. Secondo te com'è cambiato dagli anni Settanta a oggi?
Tantissima della violenza che avveniva per strada si è convertita in violenza digitale. L’odio che scorre sui social fa molte vittime a livello psicologico, e a volte neanche solo psicologico, penso alle persone che si suicidano in seguito a determinate ondate di violenza online. Nel nostro Paese, per fortuna, non stiamo attraversando una crisi come quella degli anni di Piombo, siamo in un'altra dimensione. A livello politico, però, lo strumento più violento è proprio lo smartphone. È una violenza che probabilmente fa meno male; è ovvio che mettere una bomba e far saltare in aria un edificio è diverso da un tweet, non le sto minimamente paragonando, ma bisogna pensare agli effetti che possono avere queste azioni nel lungo periodo. Mi vengono in mente alcuni esempi di recente attualità.
Dicci pure.
Donald Trump e Elon Musk usano i social in una maniera che produce una violenza reale. Penso a Capitol Hill e a tutto quello che è successo quando si è insediato Biden. Ci sono poi persone che si radicalizzano e che, come innesco, usano proprio dei video online, dei post che li inducono a intraprendere un percorso estremo di violenza. È un orizzonte non calcolabile, non misurabile, ma infinitamente pericoloso.
Mario Rossi, come abbiamo detto, non ha mai fatto violenza politica, ma ha agito per se stesso e i suoi compagni. Tu te la sei data una spiegazione per quella violenza?
La sua vita criminale è rimasta circoscritta all'ambito gangsteristico: ha ucciso rivali, corrieri della droga, persone che a volte lo stavano minacciando. Non me la sono spiegata e non è riuscito a spiegarmela nemmeno lui. L'unica cosa che mi fa mi fa pensare a un codice, per così dire, è quella appunto di esercitare una violenza all'interno di un contesto. Io sono di una banda, tu sei di un'altra banda, io sono la guardia e tu sei il ladro; e in questo caso, per quanto ovviamente inaccettabile, la violenza rientra in una dinamica comprensibile. Un codice gangsteristico, appunto, che si sintetizza nella famosa frase: “Non si uccidono donne e bambini”. Non si uccidono civili, ma persone come te che vogliono a loro volta eliminarti.
È un po' quel genere di dinamica che vediamo, ad esempio, negli scontri tra ultras: in gioco c’è il predominio di un territorio, dove si scontrano due fazioni “alla pari”.
Sì, è una dinamica simile. Capita anche che vengano coinvolti dei civili, ed è una cosa tremenda, perché magari quella persona si ritrova nel posto sbagliato al momento sbagliato. È un mondo normato da regole folli, dove se sbagli muori, dove se insulti o pesti i piedi a qualcuno rischi la vita.
Parte centrale del film è la permanenza nei braccetti della morte delle carceri degli anni Settanta. Secondo te perché questa realtà andava raccontata?
Raccontando Mario Rossi e intervistando Mario Tuti e Pancrazio Chiruzzi era un tema che per forza di cose dovevamo affrontare, dato che fa parte della loro vita. Tutti parlano di un isolamento durissimo, chi l’ha vissuto dice che al confronto il 41bis è una passeggiata. A livello giornalistico non abbiamo reportage fotografici o video di quelle strutture, sono passate quasi del tutto inosservate a livello storico, e cercando online si trova veramente poco. Quelle strutture sono state usate un per spaventare gli altri detenuti. Dato che le guerre intramurali erano tantissime, quasi ogni carcere era una polveriera, hanno usato uno strumento di deprivazione sensoriale estremamente duro per punire e intimidire la popolazione carceraria.
Nel tuo film i protagonisti sono i detenuti, ma l'altra parte, cioè la polizia carceraria, meriterebbe di essere raccontata?
Ci tengo a sottolineare che non ho avuto la presunzione di raccontare il mondo carcerario in assoluto, il mio film non ambisce a fare una sintesi di un tema così vasto. La polizia penitenziaria spesso viene citata quando succedono cose tremende, quando abusa del proprio potere. Ma effettivamente non viene narrato il loro impegno quotidiano, è un lavoro di cui probabilmente si tendono a dare per scontate tutta una serie di cose. È un lavoro pesante, anche rischioso. Diciamo che se non spicca una storia in particolare, che non deve essere necessariamente negativa, è un tema che si tende a ignorare, a tenere da parte.
Le bande degli anni Settanta sono state talvolta mitizzate, come quelle di Vallanzasca o Turatello. Oggi vediamo che sono tanti, e forse anche più giovani, a costruire queste gang. Che differenze vedi tra queste due generazioni criminali?
Riporto ciò che gli intervistati mi hanno detto nel corso del documentario. Il mondo criminale è cambiato totalmente, ci sono delle figure che sono sparite del tutto, pensiamo ai rapinatori di banche. Poi loro dicono che la questione della fratellanza, del codice d'onore, oggi non trova spazio nelle nuove leve. Insomma, dicono che c'è solo una violenza finalizzata al guadagno.
Torna in mente quello che è successo a Milano dopo la morte di Ramy: anche la narrazione di episodi come quelli è totalmente cambiata.
Certo, lo storytelling ha cambiato totalmente aspetto, penso anche ai trapper o ai rapper che finiscono in carcere e usano la loro esperienza dietro le sbarre per fare musica, per esercitare un fascino sui tanti che li ascoltano, usando codici comportamentali e linguistici ben precisi.