La notizia è una bomba: la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è indagata dalla Procura di Roma per favoreggiamento e peculato, in relazione al rimpatrio di Osama Njeem Almasri, comandante della prigione libica di Mittiga. Lo ha annunciato lei stessa personalmente, tramite un video sui social. Meloni ha spiegato che il procuratore Lo Voi le ha inviato un avviso di garanzia per i presunti reati legati alla vicenda del rimpatrio di Almasri. L’avviso coinvolge anche i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano. Secondo Meloni, l’indagine è stata avviata dopo una denuncia dell’avvocato Luigi Li Gotti, descritto come vicino a Romano Prodi e noto per aver difeso importanti collaboratori di giustizia. Ricostruendo i fatti, Meloni ha riferito che la Corte penale internazionale aveva emesso un mandato di cattura per il capo della polizia di Tripoli, Almasri, mentre si trovava in Italia. Tuttavia, il mandato non è stato trasmesso al Ministero della Giustizia italiano, motivo per cui la Corte d’Appello di Roma non ha convalidato l’arresto. Dopo la sua liberazione, il governo ha deciso di espellere e rimpatriare immediatamente Almasri per ragioni di sicurezza nazionale, organizzando un volo specifico. Questo, secondo Meloni, ha portato all’indagine da parte della Procura. "Non sono ricattabile", specifica nel post con cui ha annunciato la notizia. Ma è giusto chiamare ricatto un'indagine?
Meloni ha ribadito di non essere intimidita e ha dichiarato che continuerà a perseguire la sua agenda politica, sostenendo che la sicurezza nazionale e la protezione degli italiani rimangono la sua priorità. Ha anche collegato l’indagine alle resistenze di chi, secondo lei, ostacola il cambiamento in Italia. L’avviso di garanzia è stato notificato alla vigilia di un’informativa in Senato, in cui i ministri Nordio e Piantedosi riferiranno sul caso. Il dibattito riguarderà l’arresto, il rilascio e il rimpatrio di Almasri, ricercato dalla Corte dell’Aia per crimini di guerra e contro l’umanità. Secondo le accuse dell’Associazione nazionale magistrati, il ministro Nordio non avrebbe risposto tempestivamente alle sollecitazioni della Corte d’Appello di Roma, il che avrebbe contribuito alla liberazione di Almasri. Quest’ultimo era stato arrestato il 19 gennaio a Torino sulla base di una “red notice” dell’Interpol, ma, dopo 48 ore senza risposte dal ministero, è stato rilasciato. Successivamente, il governo ha deciso di espellerlo immediatamente per ragioni di sicurezza. L’alternativa al rimpatrio sarebbe stata l’applicazione di una misura cautelare in Italia, ma si è optato per il rientro immediato in Libia. Dagospia ne ha approfittato per lanciare una tesi: la magistratura è la vera opposizione, e copre il vuoto lasciato da una sinistra decrepita, moscia e priva di spunti. Di più, secondo i giornalisti di Dago la mossa di indagare Meloni sarebbe una conseguenza della “clamorosa protesta delle toghe contro Nordio all’apertura dell’anno giudiziario”. Vero o no, in ogni caso la notizia sarebbe una bella mazzata in un qualunque Paese democratico. In effetti, lo è. Infatti Matteo Salvini, "quel procuratore ci riprova", e Antonio Tajani "sembra una ripicca" si sono affrettati a rilanciare la notizia con una rilettura vittimistica e complottista.
Almasri è stato arrestato il 19 gennaio 2023 a Torino in seguito a una red notice emessa dall’Interpol su mandato della Cpi. Tuttavia, il mandato di cattura non è stato trasmesso al Ministero della Giustizia italiano, impedendo alla Corte d’Appello di Roma di convalidare l’arresto. Dopo 48 ore, il termine massimo consentito per la detenzione preventiva, Almasri è stato rilasciato. Contestualmente, il governo ha deciso di espellerlo e rimpatriarlo immediatamente in Libia per motivi di sicurezza nazionale, utilizzando un volo apposito. La decisione di rimpatriare Almasri, invece di applicare una misura cautelare in Italia, ha suscitato ovvie polemiche politiche. Osama Njeem Almasri, comandante della prigione libica di Mittiga, è accusato dalla Corte Penale Internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Le accuse si basano su prove che documentano torture sistematiche, detenzioni arbitrarie, violenze sessuali, esecuzioni sommarie e trattamenti inumani contro migranti e oppositori politici. La prigione di Mittiga, situata nei pressi di Tripoli, è tristemente nota per essere un luogo di violenze sistematiche e abusi, e sotto il comando di Almasri è diventata uno dei simboli della brutalità del sistema detentivo libico. Secondo i rapporti internazionali e le indagini condotte, Almasri ha avuto un ruolo centrale nella gestione della prigione e nella repressione di coloro che venivano considerati nemici, inclusi migranti detenuti in condizioni disumane. I migranti, spesso intercettati in mare dalla Guardia costiera libica o catturati durante il loro transito verso l’Europa, venivano trasferiti in centri di detenzione come quello di Mittiga, dove erano sottoposti a violenze fisiche, abusi sessuali e richieste di riscatto alle loro famiglie. La prigione di Mittiga non sarebbe solo un luogo di reclusione, ma farebbe parte di un sistema più ampio che gestisce il traffico di migranti e sfrutta la crisi umanitaria a scopo di profitto. Almasri è considerato una figura chiave in questo contesto, in quanto legato a milizie che collaborano con le autorità tripoline e con la Guardia costiera libica. Quest’ultima, sostenuta finanziariamente e logisticamente dall’Unione Europea e dall’Italia nel quadro degli accordi per il controllo dei flussi migratori, è stata più volte accusata di violazioni dei diritti umani. Il ruolo di Almasri negli sbarchi di migranti è indiretto ma significativo, in quanto la prigione di Mittiga rappresenta una tappa nel ciclo di sfruttamento e violenza che coinvolge i migranti. Coloro che non riescono a proseguire il viaggio verso l’Europa vengono spesso arrestati e internati, mentre coloro che tentano la fuga via mare rischiano di essere intercettati, riportati in Libia e nuovamente sottoposti a violenze. Averlo riconsegnato di corsa al suo Paese di origine sarà anche stata una mossa dettata da motivazioni geopolitiche ben precise, su tutte la paura di un aumento incontrollato degli sbarchi. Ogni scelta però ha le sue conseguenze, e chissà se anche questa volta basterà buttarla sulla solita caciara dello scontro politico.