Sono molti i cambiamenti in corso nell’industria automobilistica mondiale. Tecnologie da implementare, mercati da esplorare, normative sempre più stringenti. La transizione all’elettrico. Nel nostro paese, però, quanti sono i posti di lavoro veramente a rischio. La società di consulenza Alix Partners ha presentato al ministero delle imprese la sua analisi: 25mila posti di lavoro a rischio che potrebbero diventare addirittura 50, se non aumentano i livelli di produttività. È Milena Gabanelli nel suo Dataroom a citare lo studio, aggiungendo anche un dato: in tutto il 2024 si sono prodotti meno di 500mila veicoli. Le due cause principali sono il fermo al motore a scoppio previsto dal 2035 (per volontà Ue) e la concorrenza cinese. Inoltre, la scelta di Stellantis di produrre all’estero, nonostante le richieste (e i 950milioni di incentivi nel 2023) mosse dal ministro Adolfo Urso. Gli Agnelli e gli Elkann ormai sono solo uno degli azionisti del gruppo e non possono più decidere in autonomia di mantenere la produzione in Italia. La Cina, nel frattempo, ha sovvenzionato le sue aziende, che ora hanno diversi punti di vantaggio in termini di tecnologia e di competitività dei prezzi (il 20% più bassi rispetto a quelli delle auto europee). Per fermare l’avanzata cinese sono stati stabiliti dei dazi tra il 17 e il 35% per i futuri cinque anni. Se in questo frangente temporale Mario Draghi ha stimato una perdita annuale del 10% di produttività, in Italia la decrescita è iniziata trent’anni fa.
Non è vero, però, che l’Italia è il Paese con il costo del lavoro più alto: i 29 euro orari di un operaio italiano sono superati dai 35 della Francia e dai 44 della Germania. Simile, invece, il costo in Spagna (25 all’ora), dove Stellantis ha prodotto un milione di auto nel 2023. Il gruppo afferma che la differenza sul costo del lavoro negli stabilimenti di Madrid e Saragozza è del 22%, mentre a Melfi e Mirafiori la produttività cala del 38%. Ma a cosa è dovuto questo dislivello? Innanzitutto al fatto che i due stabilimenti nostrani non sono a pieno regime; gli investimenti, poi, sono stati insufficienti, come dimostra il fatto che negli ultimi tre anni Stellantis ha incentivato il 20% del suo personale ad andarsene, con la conseguenza che oggi l’età media dei dipendenti di Mirafiori è di 57 anni; e poi c’è il calo della retribuzione, che però non riguarda solo il settore auto, dato che l’Italia è il Paese Ocse con gli stipendi che sono diminuiti maggiormente. Altro capitolo quello del costo dell’energia: in questo siamo i primi, con 103 euro ogni Mwh, più del doppio della Francia, che invece ne spende 49,3. Ci sono poi la Spagna (53,7), la Germania (71,4), la Serbia (91,5) e la Polonia (92,1). Anche la strada del nucleare, come ricorda Gabanelli, richiederebbe non meno di 12 anni per diventare un fattore positivo. E su questo interviene Massimo Beccarello, direttore del Centro di ricerca in economia e regolazione, dei servizi, dell’industria e del settore pubblico (Cesisp): “Nell’immediato una leva per rendere competitivi i settori strategici per il Paese possono essere le energie rinnovabili, vuol dire che innanzitutto il governo deve accelerare la produzione di eolico e fotovoltaico per raggiungere gli obiettivi che si è dato entro il 2030, contemporaneamente va affrontato il problema del prezzo. I costi di produzione delle rinnovabili sono più bassi, incluso quel 23% di energia prodotta da idroelettrico, ma poi viene tutta venduta allo stesso prezzo del gas. Bisognerebbe disaccoppiare i prezzi e destinare una parte di questa energia da rinnovabili ai settori a rischio delocalizzazione”, le parole dell’esperto.
C’è poi la questione della logistica inadeguata, che fa lievitare i costi e rallenta il flusso logistico complessivo. Difficile comunque prevedere investimenti in infrastrutture, data l’incertezza sulla continuità della produzione negli stabilimenti. A tutto questo si aggiunge un ulteriore elemento: la dimensione delle industrie di componentistica italiane. Secondo Alix Partners, infatti, sarebbero troppo piccole per competere con le altre imprese a livello globale, come dimostrano i fatturati (meno del 20% rispetto alle industrie francesi, meno 50% di quelle tedesche). “È vero che Fiat ha ricevuto dal Paese più di quanto ha dato, ma è altrettanto vero che i governi che si sono succeduti negli ultimi 50 anni non hanno fatto quello che era necessario per avere un rapporto alla pari”, dice ancora Milena Gabanelli nel Dataroom. Il gruppo non ha concorrenti in Italia e nel 2002, quando la Fiat chiese aiuto al governo, non divenne una partecipata dello Stato. “Ora dobbiamo scegliere se continuare a lamentarci per le scelte sbagliate del passato e dell’ingratitudine di Stellantis o se cambiare passo”, conclude la giornalista. E i 4,6 miliardi per la filiera dell’automobile cancellati non fanno ben sperare.