Se questa città non dorme, allora siamo in due. Partirei da qui. Dai versi che Tiziano Ferro ha posto in esergo della canzone Il confronto, che lo vedeva duettare con Carmen Consoli, probabilmente l’ultima decente della sua discografia. La città che non dorme è Milano, è evidente, parlo di me. E non dorme, almeno quella nei pressi di San Siro, dove alberga, grazie a Dio e alla protesta di cittadini assennati, lo stadio Meazza, dove ieri è andata in scena la seconda di tre serate dedicate all’arte di Max Pezzali. “Un grande karaoke,” dirà qualcuno. L’ho sentito dire appena sonora arrivato in zona hospitality, sotto le tribune di fronte al palco, lì dove solitamente trovano posto le panchine delle squadre che alla Scala del Calcio giocano a pallone. Non sono d’accordo. Il karaoke mi ha sempre fatto caga*e. Il karaoke con la kappa minuscola, nel senso del cantare di fronte a un televisore che passa il testo di una qualche canzone, accompagnato da una brutta base fatta con quelli che un tempo venivano chiamati suoni Midi. E il Karaoke con la kappa maiuscola, inteso come il programma condotto da un giovane e lungocrinuto Fiorello in quel di Italia 1, lui a gigioneggiare per le piazze italiane, e un numero imprecisato di cantanti più o meno improvvisati a fare il resto. Anche Fiorello mi ha sempre fatto caga*e, ma è altra faccenda, qui si parla di karaoke e Karaoke. Il karaoke mi ha sempre fatto caga*e perché l’ho sempre trovato la negazione dell’idea stessa di interpretazione, sia che a cantare fosse un cane, stonato e quindi in odor di Corrida, sia che a cantare sia un talento, tutti sappiamo che una giovanissima Elisa cantò da Fiorello, quando ancora faceva la parrucchiera. Il canto è interpretazione e farlo su una base brutta, seguendo un testo che non ti permette di conseguenza un immedesimarsi con le parole, coi sentimenti, niente di buono possibile, in pratica. Quando quindi, e capita spesso, per non dire sempre, sento o leggo che i concerti di Max Pezzali, specie quelli che negli ultimi anni vanno di scena negli stadi, oggi sono alla seconda tappa su tre di fila a San Siro, in una estate per dieci stadi complessivi, quando quindi, e capita spesso, per non dire sempre, sento o leggo che i concerti di Max Pezzali, specie quelli che negli ultimi anni vanno di scena negli stadi sono un lungo e corale karaoke, non posso che provare un certo fastidio. Il medesimo, per altro, che provo quando leggo giudizi che vogliono anche essere apprezzamenti, ma che a leggerli in filigrana dicono altro, come che le canzoni di Max sono il vero manifesto degli anni Novanta, che sono la perfetta fotografia dell’adolescenza e dell’adolescenza di provincia, uno spaccato del paese, certo, ma detto con un po’ di puzza sotto il naso, detti da chi pensa di conoscere quella roba lì, i Novanta, l’adolescenza, la provincia, il paese, molto meglio di lui, momento meglio di noi, li conosce e li pensa con parole più colte, più forbite, migliori. Tutto questo mi infastidisce, perché è come dire di qualcosa o qualcuna, il femminile è perché parlo di una persona, particolarmente bella, che è molto alla mano. Sticaz*i che sei alla mano, quando c’è di mezzo la bellezza. Sticaz*i. Provateci voi a scrivere un incipit come “Tappetini nuovi, Arbre magique”, mi ha detto un giorno Enrico Ruggeri, uno che invece colto viene ritenuto, salvo poi essere trattato con la medesima diffidenza per altre ragioni, Ruggeri che in qualche modo tornerà, qui e ora, basta portare un minimo di pazienza.
Ora, detto questo, sì, è vero, dire che un concerto di Max Pezzali alla stadio, San Siro nello specifico, il secondo i tre ancora più nello specifico, sia in realtà un intenso e massiccio coro dall’inizio alla fine risponde al vero, così come che nelle sue storie, molto ancorate agli anni Novanta come immaginario, si parli di adolescenza e di adolescenza in provincia, poco conta che quelli a cui Max racconta quelle storie, o meglio consente di raccontare quelle storie, perché poi sono tutti lì a farlo in coro, sono adulti, spesso, non più adolescenti, e magari neanche più residenti in provincia. Siamo a San Siro, del resto, cioè a Milano, dove è noto vivono persone nate o originarie di qualsiasi posto d’Italia tranne Milano, Max Pezzali compreso. Il paese reale, quello cui gli Afterhours dedicavano un album antologico ormai una vita fa, è tutto qui dentro, per chi volesse capirlo e volesse anche le parole giuste per raccontarlo, bastava farci un salto. Sono qui (ne facevo cenno ieri in questo articolo) insieme a mio figlio Tommaso, anche lui nato in provincia esattamente diciannove anni fa, ha compiuto gli anni il 28 giugno, giorno in cui ha anche discusso l’esame orale di maturità, essere nato in estate il motivo per cui con mia moglie abbiamo optato per la nostra città, Ancona, invece che quella Milano in cui viviamo ormai da ventisette anni, otto quando è arrivato lui. Il motivo per cui oggi sono a San Siro con lui, e ieri ero a vedere i Die Antwoord e Cosmo sempre con lui, e il giorno prima ero in coda in autostrada, diretto verso le Marche, sempre con lui (questo l’ho raccontato qui), ecco tutto questo è parte di una sorta di idea di viaggio iniziatico, qualcosa alla Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig, libro uscito esattamente cinquant’anni fa che racconta di un viaggio, anch’esso iniziatico, tenuto tra un padre e un figlio. Siccome non ho una moto, mi è parso che farlo in auto, prima, e poi più metaforico in musica, passando dalle cantautrici che mi hanno portato nelle Marche, al Domina Festival, per poi passare al rap anomalo dei Die Antwoord a Legnano e oggi il pop di Max Pezzali, Max Pezzali che ha dato alla sua prima band, gli 883, il nome di un modello di motocicletta, e che di motociclette è appassionato, ecco, per tutto questo mi è parso che come viaggio iniziatico ci fossero tappe significative, a vedere dalla risposta di mio figlio, oltre che alle mie sensazioni personali, direi che ci ho visto giusto. Perché nonostante la stanchezza palese, quindici ore in autostrada, poche ore di sonno, tre concerti, di cui uno da me presentato, due passati in piedi a Legnano, devo dire che anche quest’ultima tappa, terza di tre, è andata alla grande, un concerto strepitoso che ha messo in rilievo, ce ne fosse bisogno, un talento nello scrivere hit pop come in Italia ce ne sono davvero pochi. E siccome non è un karaoke, ma è sicuramente qualcosa che si avvicina a un party, a una festa, Max Forever, questo il titolo dato a questo tour, ripeto, dieci date in giro per l’Italia, ad aprire le danze, è il caso di dirlo, e i cori, è l’irruzione di una banda sul palco. Non una band, quella c’è e ci sarà poi, capitanata da Davide Ferrario, parlo proprio di una banda, come quelle paesane, roba che recentemente è tornata in auge, penso all’ultimo disco di Renzo Rubino, Il silenzio fa Boom, o a quello più antico di Aida Satta Flores, artista che spero prima o poi qualcuno si prenderà briga di porre sotto la luce di un riflettore, quello che meriterebbe, Aida Banda Flores il titolo, anno del Signore 2006.
Così si comincia, e da questo momento è tutto un susseguirsi di guizzi, di successi clamorosi o riscoperte pescate in un repertorio ormai trentennale, la sua presenza “normale” lì a fare la differenza, con la sua voce, perfetta per cantare quelle parole e mettere su musica quegli accenti splendidamente sbagliati. Accenti splendidamente sbagliati che sono il motivo per cui io e Max, flexo, siamo amici, perché ormai parecchi anni fa ho avuto l’ardire di far notare che solo i grandi autori, i grandi artisti, sono capaci di manipolare la sostanza delle parole facendone l’uso a sé più congeniale, e mettendo a confronto coi suoi accenti sbagliati, o meglio spostati, quelli che hanno fatto rabbrividire certi espertoni, penso a quelli del Club Tenco, che ovviamente lo ha sempre snobbato, perché come lui hanno in passato fatto geni riconosciuti come Ivano Fossati, che gli accenti li ha sempre piegati spezzando le parole, in quello che è un suo vezzo vocale, facilmente riconoscibile, o Paolo Conte, che invece le ha accentate, musicalmente, in mezzo alle frasi, ma lì evidentemente andava bene. Andiamo comunque avanti. Un fatto è evidente, basta guardarsi intorno, anche dalla prospettiva singolare dell’area preposta all’hospitality (no, non sto flexando, sto facendo insolitamente cronaca), intorno a me Michele Bravi e la sua giovane manager, dopodomani ospiti della quarta puntata di Bestiario Pop, Mr Rain, che sempre di lì è passato e passerà, Bianca Atzei con il suo compagno Stefano Corti, Paola Iezzi e Paolo Santambrogio, il tipo de Il Pagante, Max Brigante, manager di Max, Gianluca Gazzoli, che va in giro convulsamente, come a dire “sono Gazzoli”, e tutta una serie di altri personaggi di questo anomalo mondo, mondo che qui trova residenza, e da qui una cosa mi è evidente, cioè che San Siro sia bello pieno, e immagino lo sia stato sia ieri che lo sarà domani, l’oggi in cui leggerete queste mie parole. Pieno fino all’orlo, durante Grazie mille, verso la fine dello show, comparirà una cifra molto vicina a ottantottomila, non so se matematica o allegorica, ma non si vedono spazi vuoti fino in cima al terzo anello. Max del resto è molto amato, e l’idea di andarlo ad ascoltare dal vivo è parte di una ritualità che oggi accompagna, direi a ragion veduta, un certo tipo di artisti coi pezzi in repertorio, lui, Vasco Rossi, i Venditti e De Gregori, i Jovanotti, i Cremonini. Senza neanche bisogno di tirare fuori album, recentemente Max ha tirato fuori Discoteche abbandonate, un singolo che racconta come a Pavia non ci siano più “due discoteche e centosei farmacie”, come cantava in Con un deca, ma solo le centosei farmacie, perché tanto la gente vuole cantare i brani che sono veri e propri classici, con buona pace di chi insegue record posticci e anabolizzati sulle piattaforme di streaming. Anche se ritengo, vado un po’ fuori tema, lo faccio spesso, che inseguire sempre i sold out sta diventando una moda pericolosa, come se ogni volta che fai qualcosa dovessi necessariamente battere un record, sfondare al banco, vincere tutto, signori miei, si può cantare anche di fronte una platea non piena in ogni singolo posto. Non è comunque il caso di stasera, pieno zeppo di gente, felice di esserci e pronta a dimostrarlo accompagnando l’artista in ogni sua nota.
Riuscire a parlare a più generazioni, anche questo è un miracolo che riesca a questa genia di artisti, da Vasco a Cremonini, Max nel mezzo, nessuna differenza nelle capacità, semmai nei modi, e grazie a Dio ognuno ha trovato il suo. Parlare a più generazioni, lo vedo bene oggi, che sono qui con mio figlio. Mio figlio, per intendersi, che non è poi un grande cultore della musica, la ascolta, segue qualche artista internazionale, ma non è che stia sempre lì a chiedermi di andare a vedere qualche concerto. Al punto che fare una tre giorni come questa è stata appunto un’eccezione, eccezione per lui e per me che di solito non è con lui che vado ai concerti, ma io un paio di date a settimane me le faccio tutto l’anno, e già in settimana andrò a vedere Zucchero, anzi, verrò a vedere Zucchero, visto che anche lui è qui a San Siro, e porterò di nuovo lui a vedere Geolier all’Ippodromo, quella sì idea sua. Non è un grande cultore, ma a differenza mia sa chi è Il Pagante, e me lo indica, divertito. Mentre era intimidito, sicuramente, poco fa, quando Paola Iezzi e Bianca Atzei, che sono mie amiche, gli hanno detto “Quanto sei bello”. Fosse più simile a me ora starebbe dicendo la cosa a tutta la sua rubrica WhatsApp, entrambe per la cronaca hanno anche sottolineato come io sia dimagrito, lo dico qui sperando che mia moglie legga, ma io e Tommaso siamo diversi, uniti stasera dalle canzoni di Max, repertorio che io conosco da prima che lui nascesse, e che lui conosce senza forse neanche saperlo, o averlo saputo fino a stasera. Il repertorio di Max è perfetto per lui come è perfetto per me, perché parla sì di quando si è giovani, i famosi adolescenti di cui sopra, ma mette sul tavolo sentimenti e stati d’animo che poi ci accompagnano tutta la vita, e non sarà mica un caso che recentemente di canzoni Max ne tira fuori poche, perché l’età di mezzo è appunto di mezzo, non propone grandissime variazioni sul tema, se non quelle genitoriali per chi, come me e come lui, genitore è. Certo, rispetto a ieri, a Legnano, manca probabilmente, anzi, sicuramente, quel pizzico di follia che Ninja e Yo-Landi ci hanno regalato a secchiate, per dire, Max non ha fatto stage diving, non ha fatto vedere il culo, non ha neanche fatto un rap a capella dissando Eminem, come invece ieri abbiamo visto al Rugby Sound Festival, ma essere normali, è scritto nei libri, è a volte molto più difficile che essere eccezionali, straordinari o eccentrici, provateci voi a avere milioni di fan non eccedendo in altro che nello scrivere canzoni destinate a entrare nei cuori di tutti. Non spoilero la scaletta, che comunque è facilmente trovabile online, ma sia chiaro che le bombe ci sono tutte, ma proprio tutte tutte, con in più la presenza di qualche chicca, perché Max è generoso come le sue canzoni. La scaletta non ha bisogno di ospiti, infatti lo show sta tutto sulle parole e le note e la faccia di Max e la sua band, eccezionale, e neanche di discorsi, a parte qualche “Ciao Milano” e “Grazie Milano” e un passaggio nel quale ha sottolineato il privilegio di essere arrivato a cinquantasei anni a poter cantare dentro un San Siro pieno di gente a cantare in coro, nulla è stato detto.
Il concerto è una sorta di rito sciamanico, dove attraverso canzoni che tutti sanno e cantano a memoria sessantamila anime si ergono in aria, libere dagli stress e dai pensieri di tutti i giorni, e si ritrovano dentro una narrazione che ci comprende tutti. Con picchi, come è ovvio che sia, penso al momento Una canzone d’amore, lo stadio illuminato dalle luci degli smartphone, come richiesto, simpaticamente, dagli schermi sul palco, seguita da Come mai, o ai tanti momenti danzerecci, come il finale affidato, questo sì che è uno spoiler, a Con un deca, con tanto di lancio di banconota da diecimila lire con su la faccia di Max. Quel che è successo poi, finito il concerto, meriterebbe, forse, un capitolo a parte, parlo di questa anomala trilogia che mi ha visto raccontarvi una tre giorni piuttosto anomala in giro per l’Italia e per concerti con mio figlio. Noi portati in un punto imprecisato di San Siro, noi che si stava a guardare il concerto lì, zona panchine, per salutare Max. Io che mi ritrovo a vedere i rigori del Portogallo contro la Slovenia, con un gigantesco Diogo Costa che para tutti i rigori, in compagnia di Stefano Corti, che ha fornito il device per seguirli, di Evaristo Beccalossi e Alberto Bollini, commissario tecnico della Nazionale Under 19 e Under 20, tuttora campioni europei in carica. Una scena, mi dirà poi mio figlio, che avrebbe voluto filmare, non fosse che a furia di riprendere gli spalti che saltavano e cantavano durante il concerto gli si è spento il cellulare. Come forse avrebbe meritato di essere filmata la chiacchierata fatta con Paola Iezzi, su questa sua nuova esperienza da giudice di X Factor, completamente vestita Gucci, mi dirà poi mio figlio, non troppo distratto dai complimenti da lei ricevuti o dal decolleté, o quella fatta con Max, poi accompagnato lì da sua moglie Debora Pelamatti, che è l’artefice della nostra amicizia, lì a regalare a tutti un selfie, un abbraccio, una parola, con noi a parlare di Die Antwoord e di come no, in effetti non pensa neanche lui che tutto questo sia un karaoke, spero oggi di aver chiarito io perché. Mentre Max passa dall’aver fatto una foto con noi a una con l’ex sindaco di Pavia, Alessandro Cattaneo, io e Tommaso conquistiamo l’uscita, non dopo aver augurato a Mr Rain, magari un giorno, Max c’è riuscito a cinquantaquattro anni, di arrivare fin qui. Attraversiamo il parcheggio dei bus e arriviamo lì dove abbiamo lasciato la macchina, facendo un lento, lentissimo ritorno verso casa, incolonnati come poche ore fa in autostrada. Se questa città non dorme, allora siamo in due, anzi in tre, o forse tremila, viene da dire con il Tiziano Ferro che passa in radio. O meglio, per dirla con quel Robert M. Pirsig giustamente citato a più riprese, “Ora tutto andrà meglio. Queste cose si sentono”.