Sono un appassionato di serie tv di ambito ospedaliero, le cosiddette medical. Ho cominciato anni fa con E.R.- Medici in prima linea, poi sono finito sotto con Grey’s Anatomy, e a seguire, The Resident, The Good Doctor, New Amsterdam. Doc e altre serie italiane (no, grazie, preferisco vivere). Comunque. Credo che, occorresse, saprei fare una tracheotomia utilizzando una penna bic, o far pulsare un cuore stringendolo tra le mani. Mani ovviamente conficcate dentro il torace di un paziente cui sto nel mentre comprimendo una qualche arteria lacerata all’interno del suo addome. Roba così. Sono un appassionato di serie tv medical, e in quanto appassionato di serie tv medical, considerate che tutte quelle che ho menzionato, pur svolgendosi in ospedali americani, pur avendo nelle trame, articolate, storie d’amore, di contrasti di lavoro, sfondi sociali tipici di quella realtà sociale lì, protagonisti importanti, sfaccettati, che li guardi per due puntate e ti sembra di conoscerli davvero; ecco, considerate tutto questo ma sappiate, se non siete anche voi appassionati come me, che sono tutte serie distinte nettamente tra loro, con caratteristiche peculiari diverse, sia mai che qualcuno pensi che si tratti di tante repliche dei medesimi cliché, ecco, sono un appassionato di serie tv medical, che sono tutte diverse tra loro, ma in tutte queste serie, prima o poi, succederà che uno dei protagonisti, magari non proprio quello principale, ma sicuramente non una figura troppo secondaria, a un certo punto finirà per diventare dipendente da antidolorifici. Gli succederà un qualche tipo di incidente, non è rilevante qui sapere quale, comincerà a curarsi con questi farmaci, che par di capire in America vanno via come il pane, e di lì a breve diventerà un tossico, irascibile, fragile mentalmente, dipendente in tutto e per tutto come chi, nelle nostre città, vediamo vivere ai margini, dormendo in panchine e rovistando nei cassonetti. Lì, però, si parla di superprofessionisti, gente che fino alla puntata prima, appunto, faceva tracheotomie con una penna bic, vuoi che non ti capiti di dover salvare una vita mentre, che so, sei in ascensore, o faceva pulsare un cuore stringendolo, delicatamente, tra le mani. Una dipendenza è una dipendenza, e le serie tv medical, tutte quelle citate lavorano, singolarmente, su aspetti specifici della società americana, evidenziando crepe profonde e storture, che si tratti del razzismo, dell’avidità delle case farmaceutiche, dell’inclusività, del revisionismo sulla legge sull’aborto, della sanità privata imperante, quindi sì, una dipendenza è una dipendenza, e le serie tv medical, su questo si compattano per raccontarle, mettendo in allarme il proprio pubblico sulla facilità con cui gli antidolorifici vengano proposti come cura, e sulla ancora ulteriore facilità con cui ci si possa finire sotto.
In genere, sono serie che vengono catalogate sotto la categoria “drama”, e in ogni puntata si assiste a un numero incredibile di tragedie, senza contare quelle che attraversano la trama complessiva della serie, che si dipana nel giro di intere stagioni, a volte anche di più stagioni, credo di non aver visto così tante morti violente, quello dell’uso delle armi da fuoco è un altro argomento comune a tutte queste serie, come in queste serie qui, in genere, dicevo, queste storie di dipendenza alla fine si risolvono, quasi sempre, il protagonista si salva, dando una speranza agli spettatori, altrimenti sottoposti comunque a tutta una serie di stress emotivi che vi lascio solo intuire. Nella vita reale, temo, la faccenda va spesso diversamente. Tutto questo per dire cosa? Faccio ricorso ad altri film, non sto neanche a citarne uno, chiunque di voi avrà visto questa scena decine di volte, in tv o al cinema, e potrà serenamente immaginarsela con la mia faccia al posto del protagonista: ci sono io seduto su una scomoda sedia di legno, di quelle pieghevoli, che teniamo in cantina e portiamo su quando invitiamo a casa un numero di persone più alto del solito, e le sedie che abbiamo in casa non sono sufficienti, intorno a me un cerchio di altre persone, tutte abbastanza dimesse, tutte sedute in sedie simili, ci sono io seduto su questa sedie, tutti stanno guardando me, adesso, me che dico: “Mi chiamo Michele, e ho un problema di dipendenza”. È vero, ho un problema di dipendenza. Fossimo in una serie tv, visto che in genere in Italia tutto quello che ruota intorno a cinema e tv ruota intorno a Roma, direi “Sto a rota”. Il fatto è che lo sapevo pure, come i medici di quelle serie tv, figuriamoci, tutta gente che ha studiato, che ha fatto esperienza in ospedale facendo anche turni di trentasei ore di fila, quasi tutte le serie ruotano intorno ai pronto soccorso, io lo sapevo, perché mi conosco, so le mie fragilità, e perché conosco gli effetti che certe situazioni scatenano, ma sono stato incauto, mi sono fidato, e ci sono cascato di nuovo, come un Achille Lauro d’annata. Ho guardato un reel su Instagram, del mio amico Giorgio Cappozzo, autore tv e raffinato umorista. Durava pochi secondi, ma tanti bastavano. Instagram è bastarda, non si limita a mettere reel, ti concede la possibilità di andare oltre, vedere i video completi, che sarebbero come le dosi lasciate dai pusher sulle scale dei tossici loro clienti o loro papabili clienti. Stanno lì, non vuoi prenderli? Così dal reel sono passato al video, e dal video al canale del titolare del video, e quindi agli altri video, e ora non riesco a tenermene a distanza, a non guardarli compulsivamente, come nelle serie crime succede a certi criminali, in genere quelli che ruotano intorno alla casistica dei crimini sessuali, sì, sono anche un grande appassionato di crime, specie di quelle che ruotano intorno ai gruppi di profiler, tipo Criminal Minds, so che è sbagliato, chiedo anche aiuto, ma continuo a perpetuare quel che sto facendo, andando sempre più a fondo, fino che, ora siamo in ambito crime, non scrivo col sangue di una vittima sul muro: “Vi prego, fermatemi”. Ecco, ho visto un reel che mostrava un breve estratto da un videoclip di Revman, la canzone in questione era San Michele il Poliziotto 2.0, e non ne sono più uscito. Sono ore, giorni che continuo a guardare quei video, alzando per altro l’indice di visualizzazioni, per altro sempre piuttosto alti, sapevo che sarebbe successo che ci sarei finito sotto, ma non sono stato abbastanza forte dal resistere. A convincermi, credo, non solo il fatto che siano video che, oggettivamente, danno immediata dipendenza, ma anche il fatto che, per cercare di capire chi in effetti Revman fosse, sono andato su Google, che mi ha spinto a guardare il suo sito personale, Revmanrapper.it, e che andandoci ho visto che era un Account Sospeso. Perché Revman, il titolo del brano che ho su citato già diceva qualcosa, è tale Sebastiano Vitale, nato il 9 aprile 1990 a Palermo e cresciuto a Lecce, poliziotto a Milano, queste le poche info che il sito, sospeso, ancora ci concede nella schermata di Google, un poliziotto che fa rap. Fa rap, parliamone.
Un poliziotto che propone delle canzoni, nelle quali racconta il suo fare il poliziotto, con un flow che, fossi io un poliziotto e non un critico musicale, mi dovrebbe indurre a chiedere a qualcuno dei miei colleghi che si occupano di questi aspetti, di cercarne la reale identità al fine di andarlo a arrestare, perché le rime sono costruite con la stessa agilità con la quale un gruppo di anziani di una casa di risposo potrebbe affrontare una gara di ginnastica artistica, saltando sulla trave o salendo sugli anelli, questo a prescindere dai temi trattati, temi che rovesciano i cliché del crime, appunto, togliendo però ogni allure verso chi difende la legge, e elevando all’ennesima potenza invece il fascino del male, da che mondo è mondo i cattivi attirano molto di più dei buoni, avete presente tutti dove vanno le cattive ragazze, tra inferno e paradiso. Sì, una sorta di incentivo a delinquere in musica, roba che lo ascolti e rivaluti l’immaginario perpetrato forse con troppa leggerezza da trapper quali Simba La Rue, Baby Gang e affini. Di più, roba che ti spinge a dare dar fuoco a tutta la bibliografia di Pier Paolo Pasolini, dai singoli libri alle raccolte per i Meridiani, reo di aver scritto il famoso articolo sui fatti di Valle Giulia, che da quel momento vengono usati come il manganello di un celerino per sfracassarci le palle sul fatto che i poliziotti sono i veri proletari e noi intellettuali dei radical chic con il cuore a sinistra e il portafogli a destra (questo ovviamente non l’ha detto Pasolini, ma credo Feltri, ma il fatto che i due possano stare nella stessa frase è anche effetto della distorsione proprio di quell’articolo lì). Revman, questo il nome d’arte, e Deo gratia che non ho scoperto cosa di cela dietro questo street name, ha fatto pezzi, questo l’ho scoperto andando a spulciare su YouTube in un servizio a lui dedicato del tg Lombardia, nei giorni della pandemia, ha scritto brani quali Riduci la velocità, scritto per la prevenzione agli incidenti stradali, lo senti e diventi automaticamente Vin Diesel in uno degli episodi di Fast and Furious, poco conto che tu abbia una utilitaria, a Pianeta di plastica, questo sì che ti spinge a negare l’ovvio, diventando un Vittorio Feltri che dice che siccome piove non c’è nessuna problema col clima, passando per l’inno contro le droghe, Rogoredo Trap, ora scusate ma scendo a cercare una dose di crack in piazza, a Sopra lo stesso social, che parla di cyberbullismo, piccoli sfigati che ve ne state lì dietro il vostro schermo, incapaci come siete di vivere una vita vera, gattini da tastiera. Ti ascolti tutta la sua discografia, in sostanza, e diventi il papabile oggetto di un biopic da parte di Michael Haneke, che per una volta dovrà tenere il freno a mano tirato, perché tu sarai molto più di quanto lui non ci abbia raccontato fin qui. Con lo stesso flow dei Pali e dispari dei tempi di Zelig, forse con minore perizia nell’appoggiare le parole sulla metrica, ma con maggiore senza comico, temo involontario, e con una poetica che cristallizza più di quanto abbiano fatto secoli di storia dell’arte il concetto di come siano le ombre a donare profondità alle luci, il male a farsi sublimare dal bello, sì, ma dove il bello è presente, altrimenti è tutto un Caravaggio a gogo, Revman non sembra cosciente di come la musica, specie il rap e la trap, sia sì un ottimo veicolo per alfabetizzare su certe tematiche i più giovani, ma anche e soprattutto un ottimo modo per diventare un meme, vanificando qualsiasi sforzo di essere preso sul serio, a discapito proprio dei temi trattati. Ci sarà un motivo per cui gli adolescenti, voglia Dio, finiscono per innamorarsi di Giacomo Leopardi o di Gabriele D’Annunzio, e non di Giovanni Pascoli e Guido Gozzano, sempre che si innamorino mai di uno scrittore e fermandosi a un grado ancor più che superficiale della loro poetica, per come viene insegnata a scuola.
Non so se esiste una patologia che evidenzi questo tipo di ossessione, ma so per certo che c’è chi è attratto ossessivamente dal brutto, dalle mostruosità. Immagino, ma forse lo immagino perché l’ho visto e invecchiando l’ho dimenticato, è più una sensazione che una certezza, che gente come James G. Ballard o David Cronenberg ci avrà messo su una qualche opera, un libro o un film, e infondo Crash, con quella fissazione malata con la morte, le cicatrici, le lamiere insanguinate, è sempre da quelle parti, Crash, il libro di Ballard è poi diventato un film di Cronenberg, mica per caso. Non so se esiste una patologia che evidenzi questo tipo di ossessione, ma so per certo che c’è chi è attratto ossessivamente dal brutto, spostando l’attenzione sul mondo dell’arte e dell’intrattenimento, qui siamo decisamente più dalle parti del secondo che del primo, c’è chi adora il trash, intellettualmente parlando, penso a Marco Giusti o al mai abbastanza compianto Tommaso Labranca, ma recentemente anche a un Auroro Borealo, lì a guardare cose che ci dovrebbero respingere quasi violentemente, ma che in fondo esercitano su di noi una fascinazione irresistibile, quasi morbosa. Ecco, se esiste questa patologia, immagino archiviata sotto il macrogruppo delle parafilie, io oltre che una forte dipendenza ho anche questo. Se vedo e ascolto qualcosa di particolarmente brutto non posso che fissarlo, rallentando se è un incidente in autostrada, sperando di vedere del sangue sotto le lenzuola, o tra le lamiere, come una Rossana Arquette giusto un filo meno bionda, finendo poi per andarci sotto, a rota. Unico aspetto positivo di tutto questo, il messaggio che in effetti da Revman arriva: se riesce a fare musica chi evidentemente non è stato baciato dal talento, ma ha una forte autostima e forza di volontà, significa davvero che possiamo farcela tutti, come grida Vasco Rossi alla fine dei suoi concerti. Chiudo citando un collega, di cui per spirito corporativo non farò il nome. In un articolo a lui dedicato l’incipit è questo: “Destreggia la pistola e il microfono con la stessa disinvoltura”. Ora, a parte l’evidenza che chi lo ha scritto si destreggia poco con l’uso della lingua italiana, è chiaro che, fosse vero quanto scritto, sarebbe bene tenere Revman lontano dall’una quanto dall’altra. Per il resto se ne parla poco, e sempre con toni molto accondiscendenti, immagino da parte di chi ha qualcosa da nascondere, e quindi paura di trovarsi attenzionato dalle forze dell’ordine. Per questo, annunciazione annunciazione, a breve mi occuperò anche di un collega di Revman, collega come poliziotto e collega come rapper, Uno Sbirro Qualunque, lui che però si presenta col viso coperto da un passamontagna, come fino a poco fa il Capitano Ultimo. Uno sbirro qualunque da circa un anno entrato in sonno, come certe cellule dormiente dei terroristi, sparito dai social e senza più brani nuovi usciti o in uscita. Una grande inchiesta che diventerà l’ennesimo fiore all’occhiello di MOW e del sottoscritto. Uno dirà, ma era il caso di iniziare un discorso, chiamiamolo così, su un rapper-poliziotto o poliziotto-rapper parlando di dipendenze? Tirando cioè in mezzo un argomento serio, tragico, per poi buttarla in caciara? Sì, era necessario. Perché la scrittura serve appunto a rendere su pagina, fisica o virtuale, quel che vuole raccontare, e di serio, qui non c’è niente. Di tragico, invece, sì. Del resto, mettiamola giù così, mi appello al sacrosanto diritto di fare black humor, io, stand-up comedian non praticante. Mica vorrete che si parli di certe cose come se si stesse in effetti parlando di musica? In fondo, poi, credo di poter dire con un certo grado di certezza che a Revman il senso dell’umorismo non manca, lo vedo lì, in filigrana ai suoi testi. Quindi, io vi ho avvisato, vedere e ascoltare Revman dà forte dipendenza, tipo fentanyl, ma è gratis e online. Dopo non dite che non ve lo avevo detto e che non vi avevo avvertito. Se proprio non potete farne a meno, però, abbiate almeno la premura di farlo con me nelle vicinanze, nel momento in cui comincerete a ridere convulsamente, infatti, magari rischiando di soffocarti, sarò lì, una penna bic in mano, pronto a praticarvi una tracheotomia d’emergenza. Ho visto tutte le serie tv di ambito ospedaliero, so come si fa. Commissario, si scherza, ovviamente, mi hanno hackerato il profilo, ho preso un colpo di sole, sto invecchiando male: w le forze dell’ordine, w Revman.