Diceva che la politica era il suo hobby e che l’oscenità fosse la sua vocazione. Chissà cosa avrebbe pensato Larry Flint - oggi - nel sapere che il suo nome (almeno è così nella mia bolla social in questo momento) è in tendenza accanto a quello di Confucio.
Si è spento poche ore fa uno dei più grandi imprenditori dell’industria pornografica mondiale, un uomo libero e mitico. Ma del resto se mentre sei ancora in vita e nel pieno dei tuoi affari Milos Forman fa un film su di te e ci vince pure un Golden Globe (Larry Flynt - Oltre lo scandalo, 1996) puoi permetterti di morire sottovoce, in un’anonima giornata di febbraio a Los Angeles ed essere lo stesso consegnato alla leggenda.

Sostenitore della libertà di espressione e paladino del primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d’America, Flynt ha vissuto una vita perennemente in guerra col politicamente corretto e contro ogni forma di ipocrisia. Dichiaratamente democratico, durante lo scandalo Lewinsky che coinvolse Bill Clinton mise un milione di dollari sul banco, promettendo di donarlo a chiunque avesse portato prove su scandali sessuali riguardanti altri politici. Circa due decadi più tardi comprò una pagina del Washington Post per offrire dieci milioni di dollari a chi avesse informazioni su Trump che potessero portare l’allora inquilino della Casa Bianca all’impeachment.
Dal 1978 Flynt era costretto su una sedia a rotelle: paralizzato dalla vita in giù a causa di un attentato per mano di un suprematista bianco che non aveva gradito alcune foto di sesso di una coppia interraziale pubblicate su Hustler, il suo giornale, il suo gioiello, il suo capolavoro. Il periodico per soli adulti che insieme a PlayBoy ha scritto la storia dell’editoria, non solo statunitense. E se PlayBoy aveva trovato la sua forza nell’unione di foto e contenuto di qualità, l’unicità e la forza di Hustler erano le immagini sessualmente esplicite. Il proibito buco della serratura che si affacciava sul mondo dei grandi e attorno a cui hanno ruotato generazioni di adolescenti.

Già, Hustler. Per chi scrive quel nome pronunciato male e storpiato (ussler) rappresenta un momento di crescita indimenticabile.
Lo ricordo come se fosse ieri. Era il primo giorno di scuola, seconda media, anno scolastico 93-94. Un mio compagno entra in classe e ci dice che suo cugino gli ha portato un regalo dal suo viaggio in America. Appuntamento dopo la scuola nella casetta sull’albero del suo giardino.
Se ve lo state chiedendo: sì, si può vivere una vita alla Huckleberry Finn pure a metà anni 90 e pure alla periferia di Roma sud, a pochi chilometri dall’argine del Tevere.
In cima a quella casetta sull’albero, luogo di ritrovo e di discussioni su Roma, Lazio, Street Fighter e in cui veniva gelosamente conservato un quadernino di Non è la Rai contenente l’albo d’oro dei campionati di Sensible Soccer, sotto un paio di copie del Corriere dello Sport c’erano ben tre intonsi numeri di Hustler.

Ecco, se devo pensare a un mio momento di crescita forse è lì che va il mio primo pensiero. Un segreto, una ritualità, un indicibile di cui qualsiasi adulto avrebbe sorriso e di cui pure oggi qualsiasi adolescente riderebbe, forte dei suoi device tecnologici. Per noi però era il centro del mondo. Eravamo grandi o almeno ci percepivamo tali. Diversi anni dopo ricordo di essermi imbattuto in una bancarella dell’usato che aveva dei vecchi numeri delle edizioni americane di PlayBoy. Uno conteneva un racconto di David Foster Wallace e un altro un racconto di Stephen King. In mezzo ragazze copertina e visione culturale e imprenditoriale. Ho perso quei giornali in qualche trasloco, ma ricordo che ogni volta che mi capitavano tra le mani il pensiero tornava a quella casetta sull’albero dove Hustler raccontava a degli sciocchi ragazzini che si sentivano furbi cose che avrebbero capito definitivamente soltanto parecchi anni dopo.
Chissà cosa avrebbe pensato Flynt guardandoci. Forse ci avrebbe chiesto spiegazioni su Sensible Soccer, forse – più probabilmente – dettagli su Non è la Rai. Di certo si sarebbe fatto una risata.