Nella sarabanda dell’agonismo, sul podio salgono le gerarchie. Il più forte, il più fortunato, quello dotato della monoposto migliore, quello che si trovava semplicemente al posto giusto nel momento giusto.
Il motorsport è un enorme autodromo ciclico dove generazioni di nuovi campioni prendono il posto di altre, auto azzeccate dominano per stagioni intere e tutti gli piloti inseguono e basta, cercando di chiudere un cerchio che non si raggiunge mai, e si finisce doppiati, delusi, ritirati.
Un solo vincitore e, almeno, diciannove sconfitti. Agonismo puro da consumare la domenica dopo pranzo, storditi, sdraiati. Eppure in quello che dovrebbe essere il Colosseo della velocità, dove il pubblico è chiamato a esaltare il più forte e affossare il più debole, si finisce sempre col tifare chi poi ti spezza il cuore.
Troppo facile tifare Lewis Hamilton durante l’egemonia Mercedes, troppo semplice puntare su giovane Sebastian Vettel nel periodo d’oro di Red Bull o salire sul carro dei vincitori quando le carte dei favoriti sono ormai scoperte.
No, qui si tifa per un George Russell dilaniato dopo la gara in Bahrain con la Mercedes, e si continua a sperare in lui perché almeno in un GP finisca nei primi dieci, perché riesca a conquistare anche solo un punto con la sua Williams. E quando il suo cuore si spezza, come al Red Bull Ring, si spezza pure il nostro.
Si tifa per Daniel Ricciardo in McLaren che, perso come non è mai stato, deve ritrovare il pilota che era. Si tifa per il Vettel di oggi, mica quello dei tempi Red Bull, perché è adesso che il tedesco ha bisogno di qualcuno che non sia solo se stesso. Si tifa per ideologia, per l’amore di un colore, per tradizione, o anche solo per simpatia. Ma comunque vada si finisce sempre lì, perché le emozioni appartengono a chi sa soffrire. A chi nelle delusioni continue trova comunque lo spazio per giocare di fantasia.