In quattro anni di presidenza americana abbiamo imparato a conoscerlo davvero solo lì, sulla sua pagina Twitter. Era quello il luogo in cui il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti Donald Trump si mostrava per quello che era, con i suoi pensieri contorti, i suoi retweet complottisti, il suo linguaggio violento e inappropriato, i suoi like a personalità di spicco di gruppi come i Proud Boys o QAnon.
Il Donald Trump dei discorsi alla Casa Bianca, quello a cui qualcun altro diceva che cosa dire, non era certo il riflesso più autentico del personaggio che milioni di americani avevano scelto di votare. D'altronde a dare il via alla carriera politica di Trump erano, in qualche modo, stati proprio alcuni suoi tweet contro l'allora presidente Barack Obama e il suo presunto certificato di nascita fasullo.
Era il 2012, l'alba delle fake news sui social, del complottismo contro i poteri forti, delle presunte e - come nel caso di Obama - inventate teorie cospiratorie contro alcuni esponenti del partito democratico. Parlando lì, scrivendo di getto e non moderando le parole, Trump ha fatto la sua fortuna. E se da una parte Twitter ha fortificato e unito il popolo degli elettori del tycoon, dall'altra parte ha permesso a tutti - anche oltre oceano - di imparare a conoscere alla perfezione le idee del presidente.
L'inglese Telegraph ha stimato la pubblicazione di circa 57,160 tweet in 11 anni da parte di Trump: accuse infondate, minacce a forze armate internazionali, affermazioni di qualsiasi tipo - sessiste, omofobe, razziste e via dicendo - che per oltre una decade sono passate inosservate.

La recente guerra contro le Fake News messa in piedi dalle grandi aziende di social network ha modificato la percezione degli utenti e il DNA stesso delle piattaforme. Facebook non è più un "diario", come veniva presentato agli inizi del successo, così come Twitter, Instagram, TikTok e via dicendo. Quello che viene scritto online è pubblico, ma risponde a una società privata, che al momento dell'iscrizione chiede di accettare termini e condizioni riguardo alla privacy e alla politica di pubblicazione dei contenuti.
Morale della favola? I social non sono anarchia, e a tratti nemmeno democrazia, assomigliano più a una monarchia, o una dittatura a seconda dei punti di vista, in cui decidiamo coscientemente di andare a far parte. Lo scandalo di Cambridge Analytica ci ha insegnato questa lezione, quando si parla di condivisione di dati, mentre il recente ban di Donald Trump ci ha detto qualcosa sulla libertà di espressione online.
Dopo il sei marzo, data dell'assedio di Capitol Hill, Twitter ha infatti deciso di prendere provvedimenti contro Donald Trump, accusato di aver incitato l'assalto al Campidoglio attraverso la piattaforma social, oltre alla diffusione di centinaia di contenuti falsi, alcuni totalmente inventati, sul tanto chiacchierato broglio elettorale. Twitter ha bannato temporaneamente il presidente, annunciando poi che il ban si sarebbe esteso fino alla fine della presidenza. Questo per quanto riguarda l'account POTUS (President of the United States) mentre i vertici di Twitter hanno poi spiegato che avrebbero bannato anche la pagina personale di Donald Trump. Non era chiaro per quanto tempo si sarebbe esteso questo oscuramente del profilo, fino a ieri quando il chief financial officer del social network, Ned Segal, ha dichiarato che il bando sarebbe stato permanente, anche in caso di ricandidatura del tycoon.

La notizia ha ovviamente riacceso le polemiche riguardo al potere che i social network hanno dimostrato di avere, grazie al casus belli di Trump. Come lui sono state bannate centinaia di migliaia di pagine Facebook, account Twitter, profili Instagram. Sono sempre di più gli hastag inutilizzabili, e sempre più spesso vengono bannati o momentaneamente bloccati profili per errore o per la pubblicazione di un singolo post ambiguo. I complottisti di qualsiasi schieramento hanno ormai abbandonato i social della vecchia guardia, preferendo Telegram, Reddit o l'ormai quasi defunto Parler.
Quando si parla di libertà di parola viene sempre tirato in ballo il paradosso della tolleranza di Karl Popper: una società tollerante deve tollerare l'intolleranza? E' un paradosso ma la tolleranza illimitata porta all'estinzione della tolleranza. Quando estendiamo la tolleranza a coloro che sono apertamente intolleranti, questi ultimi acquistano sempre più forza, finendo per schiacciare i tolleranti. Per quanto paradossale quindi possa sembrare, per difendere la tolleranza non si può tollerare l'intolleranza.
Bannare dai social chi condivide e alimenta la circolazione di notizie false, che a loro volta portano a odio, scontri pericolosi e problemi all'interno dei tessuti sociali, è quindi fondamentale per preservare la libertà di espressione.
I social in questi ultimi anni, e in questi mesi concitati in particolare, sembrano urlare a gran voce che chiunque ha il permesso di esprimere le proprie opinioni, ma queste devono avere un fondamento, non devono incitare all'odio o a qualsiasi forma di discriminazione sociale, e devono rispettare la politica che la società privata ha chiesto agli utenti di sottoscrivere.

Qui però, entrano in gioco i personaggi pubblici, come Donald Trump. Siamo davvero sicuri di non voler sapere che cosa pensa il tycoon? Siamo certi che ci sarebbe piaciuto non vedere i suoi like sospetti, le sue condivisioni di post complottisti. Siamo sicuri che sarebbe stato meglio conoscere solo il Donald Trump dei discorsi concordati e non quello vero?
I social network sono diventati un luogo in cui far politica e lì, come in televisione, spesso la verità si confonde con tutto l'opposto. Trump ha sdoganato la menzogna brutale, i dati inventati, i grafici ritoccati con Photoshop. Ma possiamo permetterci che una società privata scelta di zittire un personaggio enorme come il presidente degli Stati Uniti d'America?
Quella di Twitter è stata una scelta, che oggi appare come un punto di non ritorno. Dovevano decidere se preferire la diffusione di Fake News, anche da parte di personaggi pubblici, politici o televisivi, o scegliere di bloccare la loro libertà di parola e di espressione perché associata a falsità e incitamento all'odio.
Hanno fatto la scelta definita più coraggiosa, anche se prendere questa posizione alla fine del mandato del tycoon - che per anni li ha minacciati di ritorsioni legali - non si può certo considerare poi così coraggioso. Trump, le condizioni sull'utilizzo dei social, le ha sempre violate. Da 11 anni a questa parte.

Solo che le cose stanno cambiando, e quello che prima era accettato, oggi non lo è più. Per tutti, anche per lui. E un po' è proprio colpa sua. Il fatto che l'assedio a Capitol Hill sia stato organizzato sui social, e che il tycoon abbia scelto di incitare le persone a partecipare attraverso Twitter, ha in qualche modo costretto i vertici della società a prendere una decisione fino a quel momento rimandata.
Una scelta anche politica, per non inimicarsi il nuovo inquilino della Casa Bianca, ma una decisione che oggi devono portare fino in fondo: hanno deciso di trattare il presidente come un utente qualsiasi? Allora il suo bando è permanente, non importa che lui si chiami Donald Trump.
Giusto, sensato, coerente. Ma dove ci condurrà questo punto di non ritorno, superato lo scorso 6 gennaio?
Twitter, in quando società privata, è libera di scegliere le restrizioni e le regole che preferisce applicare. Vuole che si iscrivano solo gli uomini con i capelli lunghi? Potrebbe farlo. Queste società non hanno vincoli in termini di mantenimento della democrazia, ed è giusto che non li abbiano. O vogliamo creare un social di stato?
Dall'altra parte però non possiamo ignorare il fatto che il potere di queste piattaforme, negli anni, è diventato gigantesco, e l'utilizzo che ne fanno le persone - dai singoli cittadini ai personaggi più autorevoli - è diventato parte integrante della vita quotidiana. Qualcosa che condiziona acquisti, stili di vita, scelte politiche, status sociali, condizioni psicologiche.
Qualcosa che ci racconta chi sono le persone e ci permette di entrare dentro i pensieri di tutti, ottusi o infondati che siano. E se si tratta di un personaggio come il presidente degli Stati Uniti d'America, quel pensiero non è più privato, ma è di interesse pubblico. E nessuna azienda privata dovrebbe avere il diritto di tacere un pensiero di interesse pubblico. Pur falso che sia.