C’è un film che è stato presentato durante la Festa del cinema di Roma che dovrebbe essere ancora oggi al centro dell’opinione pubblica. Anzi, bisognerebbe parlarne per giorni interi e portarlo nelle scuole, farlo vedere alle vecchie generazioni e a chi non crede che quello che sta succedendo in Emilia, a Valencia e in tutto il mondo possa avere una spiegazione che vada oltre la pura casistica. Si tratta di “Come se non ci fosse un domani” di Matteo Keffer e Riccardo Cremona. Un film straordinario che ci mostra fatti ordinari. Un film che ci presenta chi sono davvero i ragazzi di Ultima Generazione al di là delle becere rappresentazioni che ne fanno i media, le persone al bar addentando un cornetto alla crema e chi, più in generale, preferisce non pensare alla cosa più importante che c’è: la vita. E a come preservarla dal cambiamento climatico. Perché la vera domanda che dovremmo farci noi oggi, parafrasando l'osservazione di una ragazza nel docufilm è: "Siamo sicuri che un domani quando ci guarderemo allo specchio, ripensando al nostro passato, potremmo dire di aver fatto tutto il possibile, nel nostro piccolo, per il nostro pianeta?". Ecco, i ragazzi di Ultima Generazione con una pila di denunce a loro carico, tramortiti dall'ignoranza di un Paese che non si è mai sforzato di capirli e dei media che li definiscono 'giovani capricciosi', almeno potranno rispondere di sì. E noi?
Matteo, Riccardo. "Come se non ci fosse un domani" è un docufilm su Ultima generazione e sulle loro azioni, spesso criticate sia dal governo che dai cittadini. Perché avete scelto di raccontare la loro storia? E prima di girare, avevate dei pregiudizi come la stragrande maggioranza degli italiani sulle loro azioni di disobbedienza civile non-violenta?
Riccardo Cremona: Abbiamo scelto di focalizzarci su Ultima generazione perché riteniamo che il loro attivismo rappresenti un fenomeno significativo e attuale nel nostro Paese, un evento raro e di spessore che non si vedeva da tempo. L'importanza di un'azione così radicale è cruciale per chi tiene alla democrazia: una democrazia sana dovrebbe includere e valorizzare questi atti, perché fanno parte di un dibattito vitale e costruttivo. Purtroppo, abbiamo notato che i media tendono a trattare questa questione in modo superficiale e fazioso, senza approfondire il vero messaggio che i ragazzi vogliono comunicare. Per questo motivo, abbiamo voluto fare un film su tutto questo, con un'analisi più profonda. Per quanto riguarda i pregiudizi, onestamente non ne avevamo. Credo che la mia generazione sia afflitta da un cinismo derivante da anni di tentativi falliti di creare un movimento di massa realmente efficace. In particolare, quelli della mia generazione, che hanno circa 45 anni, portano il peso dell'esperienza di Genova, che non ha dato i risultati sperati. Abbiamo assistito a un arretramento delle società moderne, caratterizzato da paura, autoritarismo e divisione. Tuttavia, fortunatamente, molte di queste convinzioni sono state smentite dall'esperienza.
Quale è secondo voi il principale ostacolo per la popolazione italiana nella comprensione delle azioni di disobbedienza civile? Vi siete mai interrogati su questo durante le riprese? Cosa sfugge alla comprensione generale?
Matteo Keffer: Quello che secondo me non viene capito è la gravità della situazione in cui stiamo vivendo. Perché c'è un problema gravissimo nella narrazione della crisi climatica, che influisce anche sulla percezione delle azioni di disobbedienza civile non-violenta portate avanti da Ultima generazione. Spesso queste azioni non vengono riconosciute per quello che realmente rappresentano: un grido di allerta in un contesto di emergenza. Più che un film sulla crisi climatica il nostro vuole essere un film sul tentativo coraggioso e un po' disperato di questo gruppo di ragazzi che portano più persone possibile a rendersi conto di quello che sta succedendo. Nel corso dei due anni di lavorazione del film, abbiamo osservato attentamente il rapporto tra Ultima generazione e i media, in particolare quelli televisivi, che riteniamo nella maggior parte dei casi fortemente disonesti nei loro confronti e del pubblico. Hanno alimentato dibattiti che non portano a nulla di costruttivo e si limitano a creare confusione. Questo approccio evita di affrontare seriamente la sofferenza di una generazione consapevole della gravità della situazione. Per due anni, si è parlato quasi esclusivamente dei metodi utilizzati da Ultima generazione—come i blocchi stradali—senza mai porre domande fondamentali: perché un ragazzo di 22 anni si ritrova con 80 denunce e una vita compromessa? Qual è il motivo che lo spinge a compiere tali azioni? Queste sono domande cruciali che raramente vengono sollevate.
Pensate che ci sia qualcosa da modificare nel modo in cui queste azioni vengono percepite? Si parla spesso dell'azione stessa piuttosto che del contenuto e delle motivazioni che spingono i ragazzi di Ultima Generazione a protestare.
Matteo Keffer: Non sta a noi definire l'efficacia dei loro metodi. Non ci interessava dare un voto all'efficacia del loro operato. Dietro le oltre trecento azioni intraprese da questo gruppo di ragazzi, c'è una determinazione incredibile e una creatività notevole. Essere presenti con loro durante queste manifestazioni è stata un'esperienza intensa e toccante anche rispetto a come loro recepiscono la violenza che gli viene buttata addosso, che mette in luce quanto sia doloroso e difficile il loro impegno.
Riccardo Cremona: Queste persone sono state attaccate negli anni con una violenza incredibile di una natura ben più organizzata; si tratta di una violenza mediatica che non tollera il dissenso. Questo solleva questioni di democrazia e di negazionismo riguardo alla crisi climatica, una lotta quotidiana che questi ragazzi affrontano da soli. È fondamentale riconoscere la sproporzione delle forze in gioco. È un discorso molto ampio e complesso. Viviamo in democrazie dove abbiamo il potere di agire, mentre in altri Paesi le persone sono oppresse da regimi autoritari e affrontano da anni crisi climatiche senza alcun mezzo per farsi sentire. Abbiamo il dovere di usare la nostra voce e riconoscere la grandezza della nostra energia collettiva. È necessario che la verità venga raccontata.
Matteo Keffer: La narrazione di Ultima generazione spesso si concentra su un gruppo di ragazzi con interessi particolari, mentre ciò di cui si parla è la più grande crisi che l'umanità abbia mai affrontato. È un problema globale che coinvolge tutti noi in modo unico.
Beatrice Pepe di Ultima Generazione nel film afferma: "Preferisco che le persone si arrabbino perché non ci capiscono, piuttosto che ci capiscano ma poi non si uniscano a noi e non facciano nulla". Questa battuta è stata ripetuta alla fine della proiezione anche da uno dei ragazzi in sala di Ultima Generazione. Cosa possiamo fare noi per unirci in qualche modo alla loro causa?
Riccardo Cremona: Quando Michele, uno dei protagonisti del film, si è alzato con grande sofferenza durante i video di coda per parlare con le persone presenti è stato molto importante. Perché il sostegno, appunto, molto spesso nell'era dei social si riduce a un cuoricino, un repost, un commentino, ma questa roba non basta. Non basta, perché abbiamo la sensazione artificiale di contribuire a qualcosa mettendo un like, mentre in realtà non stiamo contribuendo a nulla, se non nei casi in cui quel like serva a qualche influencer per guadagnare qualche soldo in più. Ma non è di questo che stiamo parlando. Quindi, il sostegno dovrebbe essere veramente attivo. Tutte le componenti della società devono necessariamente contribuire a questo cambiamento, farsi qualche domanda e decidere cosa fare.
Matteo Keffer: Il problema è così grande da risultare schiacciante; è difficile convivere con la consapevolezza di ciò che sta accadendo e continuare a vivere la vita normale di tutti i giorni. Anche per noi è complicato, e spesso nessuno sembra rendersi conto di questo. Tuttavia, ciò che li distingue è la loro aderenza al problema. La maggior parte di noi non riesce a farlo perché è molto doloroso e, soprattutto, viviamo in un periodo storico abbastanza lungo in cui ci si sente profondamente impotenti, privi della sensazione di poter contribuire a qualsiasi cambiamento, il che porta a una condizione di grande passività. Ad esempio, quando all’inizio nelle nostre prime conversazioni gli chiedevamo quanto fosse pesante per loro dedicarsi quotidianamente al problema della crisi climatica, ci rispondevano che l’essere entrati in azione in realtà aveva alleggerito la loro ansia, che prendere sul serio la questione e agire di conseguenza, seppur consapevoli di quanto stessero mettendo a rischio la propria libertà, li faceva stare molto meglio.